lunedì 6 marzo 2017

PERCHE' "FIDARSI DEI PAZIENTI"

L'introduzione italiana alla “Control Mastery Theory” di Francesco Gazzillo


Quando mi è stato chiesto di collaborare alla stesura di un capitolo, nel nuovo libro di Francesco Gazzillo, che illustrasse i legami tra la Control Mastery Theory e i principali modelli di psicoterapia, ho accettato entusiasta e non solo per l'affetto e la stima che mi lega all'autore di “Fidarsi dei pazienti”. Fin dagli inizi della mia formazione, ho sempre ritenuto indispensabile che ogni scienza procedesse verso un'integrazione delle sue conoscenze; un'integrazione che si configurasse non come un appiattimento della pluralità del sapere in una visione univoca, ma come la possibilità di osservare la complessità del reale, di gettare lo sguardo su aspetti diversi dei fenomeni e dell'esperienza: per conoscere davvero anche solo una statua bisogna girarci intorno, sopra e sotto, bisogna saper assumere prospettive diverse.
La verifica scientifica delle ipotesi costruite a partire dall'osservazione e dall'esperienza clinica ha sempre più consentito alla psicologia e alla psicoterapia di giungere a un “sapere” e a un “saper fare” affidabili, di svincolarsi dalle voci autorevoli che ne hanno fatto la storia e di non doversi affidare unicamente alla pur necessaria acutezza e sensibilità di clinici e teorici. Ha consentito, in altri termini, di offrire all' <<utente psi>> dei servizi la cui efficacia è stata ormai ampiamente dimostrata. Lontana dall'intento di appiattire la dimensione umana e soggettiva fondante ogni relazione, inclusa quella clinica, la ricerca in psicoterapia si sta sempre più ponendo lo scopo di fornire criteri guida affidabili che aiutino il clinico ad adattare la propria sensibilità, la propria umanità, il proprio modello teorico e la gamma di approcci e tecniche che ha a disposizione, ai bisogni dello specifico paziente di cui vuole occuparsi: potremmo dire, la ricerca sta cercando di aiutare lo psicoterapeuta a “Fidarsi dei pazienti”.
“Fidarsi dei pazienti”, fin dalla sua introduzione, sottolinea l'importanza di prendere in seria considerazione le poche, ma molto solide, risposte che la ricerca in psicoterapia ci ha dato negli ultimi cinquant'anni (Norcross, 2011; Wampold, Imel, 2015):
“1) tutti i tipi di psicoterapia, indipendentemente dall’orientamento teorico a partire dal quale vengono condotti, sono ugualmente efficaci (il famoso verdetto di Dodo) se condotti in coerenza con un modello a cui terapeuta e paziente prestano fede;
2) le psicoterapie elaborate per affrontare i problemi specifici, e adattate alle caratteristiche peculiari di un paziente sono più efficaci di quelle “generiche” - “patient tailored” è meglio che “one-size-fits-all”;
3) la qualità della relazione interpersonale reale che lega clinico e paziente, la condivisione degli obiettivi della cura, l’accordo sui compiti reciproci (alleanza terapeutica; Lingiardi, 2002) e la presenza di aspettative positive sono molto importanti per l’efficacia di un trattamento, così come lo sono l’autenticità del terapeuta, la sua empatia, il fatto che accetti il paziente, lo sostenga nel raggiungimento dei suoi obiettivi e che riesca a modularne le emozioni.
4) alcune caratteristiche meramente umane del clinico, come la sua capacità di modulare le emozioni dei pazienti, di costruire relazioni diverse con persone diverse, di mettere in dubbio ciò che fa se non aiuta il paziente e di vedere la realtà con gli occhi dell’altro sono molto più importanti delle tecniche adottate nel favorire il buon esito di un trattamento.” (Gazzillo, 2016, pag. XXX )
La sostanziale equivalenza dei diversi tipi di terapia porta a chiederci “cosa realmente aiuta i pazienti”, ad abbandonare i dogmi di una data “scuola” di appartenenza per cercare di comprendere al meglio la persona che abbiamo di fronte e di aiutarla nel modo migliore possibile, liberi di utilizzare l'intera gamma di conoscenze, approcci e tecniche che abbiamo a disposizione, al di là della matrice teorica che le prevede, per adattarla alle esigenze di ogni specifico paziente in ogni specifico momento.
L'individuazione di aspetti meramente relazionali come fattori maggiormente predittivi di un buon esito del trattamento, inoltre, suggerisce la necessità di fornirci, nel nostro lavoro, di una “mappa relazionale” affidabile che ci consenta di regolare la nostra relazione con il paziente, e quindi i nostri interventi ma anche la nostra soggettività, in modo che possa essere mutativa. E ciò vale per pazienti di ogni fascia evolutiva (bambini, adolescenti, adulti) e per ogni tipo di setting (individuale, gruppale, familiare, di coppia, counselling e terapie brevi).


La Control Mastery Theory

La Control Mastery Theory (Weiss et al., 1986; Weiss, 1993; Gazzillo, 2016) può, in tal senso, divenire un valido alleato. Oltre a essere una teoria della psicopatologia e della psicoterapia di stampo psicoanalitico – ma per molti aspetti lontana anni luce dai concetti fondamentali della psicoanalisi classica –, la rigorosità con cui ha messo alla prova e confermato empiricamente le sue ipotesi centrali, i molti punti di contatto con i principali modelli teorici e psicoterapeutici contemporanei (cognitivismo clinico, teoria dell'attaccamento, infant research, psicologia evolutiva, psicoterapia umanistica, ect.) e l'attenzione “scientifica” che ha rivolto al processo terapeutico e all'analisi delle reazioni del paziente agli interventi del terapeuta, la rendono un metamodello integrabile con qualsiasi approccio e una valida cornice che permette di sistematizzare agevolmente i dati clinici e di orientare e calibrare consapevolmente, in maniera caso-specifica, gli interventi terapeutici.


Adattamento e sicurezza


Adattamento

Lo scopo principale della mente e del cervello è favorire l'adattamento quanto più ottimale possibile dell'individuo al suo ambiente (McGuire et al., 1992; Wakefield, 1997): questa è la premessa fondamentale della Control Mastery Theory.
Sopravvivere e riprodursi: gli imperativi a cui il “gene egoista” (Dawkins, 1976) assoggetta ogni essere vivente. Ogni organismo nasce preprogrammato per adattarsi all'ambiente ed è costantemente guidato da questa motivazione sovraordinata: tale assunto, lascito della lezione darwiniana, fornisce la cornice concettuale imprescindibile delle moderne Scienze Naturali ed è oggi condiviso dalla maggior parte degli orientamenti psicologici (Cognitivismo, Teoria dell'Attaccamento, Psicologia Evolutiva, Infant Research, Psicoanalisi relazionale, ect.).
Tutti noi abbiamo bisogno di un ambiente da cui attingere il necessario per sopravvivere e la natura ci ha predisposti per permetterci di procurarcelo. Abbiamo bocche per nutrirci e respirare, sistemi biologici complessi che regolano la nostra fisiologia e ci consentono di mantenere un'omeostasi con l'ambiente, e tutta una serie di capacità e motivazioni innate che ci spingono in questa direzione. Il cervello è la cabina di regia che silenziosamente orchestra questa magia e il funzionamento mentale è ciò che regola/controlla, consapevolmente e inconsapevolmente, il nostro comportamento per permetterci di padroneggiare al meglio l'ambiente e di trarre da esso tutto ciò di cui abbiamo bisogno: “Control Mastery Theory” significa proprio “teoria della padronanza e del controllo” e si fonda interamente su questa concezione del funzionamento mentale.
“Al centro di questo modello vi è la constatazione che le persone abbiano la capacità di eseguire inconsciamente funzioni mentali “superiori”, di controllare, in modo consapevole e inconsapevole, la propria vita mentale conscia e inconscia, e che siano intrinsecamente motivate ad adattarsi alla realtà, a padroneggiare le difficoltà, a superare le loro inibizioni e i loro problemi, a elaborare i loro traumi e a realizzarsi dal punto di vista personale e relazionale.” (Gazzillo, 2016, pag. 3)
Le ricerche svolte nell'ambito dell'Infant Research hanno dimostrato come fin dalla nascita ogni essere umano abbia la capacità, e sia fortemente motivato, a organizzare coerentemente la propria esperienza percettivo-affettiva, ad autoregolarsi, a padroneggiare gli eventi (Emde, 1989) e a sintonizzarsi con il mondo intorno a lui (Stern, 1985). In altri termini, come sottolinea la Control Mastery Theory, l'essere umano è precocemente motivato a crearsi una conoscenza affidabile del mondo fisico e interpersonale e a riflettere su di essa, ad agire sulla realtà per appagare i suoi bisogni e a mantenere una relazione positiva e amorevole con le persone che si prendono cura di lui e da cui, inevitabilmente nei primi anni di vita, dipende la sua sopravvivenza.

Motivazioni, bisogni, obiettivi

L'imperativo dell'adattamento vige per tutto il corso dell'esistenza dell'individuo e si articola in sistemi motivazionali che ne guidano il comportamento. Lichtenberg (1989) e Lichtenberg, Lachmann e Fosshage (2011) hanno individuato alcuni sistemi motivazionali principali, volti a promuovere la realizzazione e la regolazione dei bisogni di base”, sempre attivi, seppur in misura diversa, per tutto il corso della vita: la regolazione psicologica delle richieste fisiologiche dell'organismo, il bisogno di attaccamento e quello di affiliazione, l'assertività e la motivazione a esplorare l'ambiente, il bisogno di reagire con comportamenti di opposizione o evitamento a stimoli avversivi, il piacere sensuale, l'eccitazione sessuale e la cura.
Gli obiettivi di ogni essere umano si fondano su questi sistemi motivazionali e si declinano in maniera personale, forgiati dagli interessi, dalle esperienze e dalle attitudini personali.
La Control Mastery Theory sottolinea come le persone vengano in terapia per essere aiutate a raggiungere determinati obiettivi sani, normali e desiderabili che non sono riusciti a perseguire o a mantenere nel corso della loro vita e, a tale scopo, specie nelle fasi iniziali del trattamento, cerchino di far capire al clinico, non sempre esplicitamente, cosa vogliono raggiungere e come vogliono farlo. L'individuazione degli obiettivi del paziente è dunque un primo passo essenziale per portare avanti una terapia che possa rivelarsi efficace.

L'attaccamento

La Control Mastery Theory sottolinea come, ai fini dell'adattamento, per il bambino sia estremamente importante poter fare riferimento a figure adulte che si prendano cura di lui, che lo facciano sentire amato e bene accolto, che lo proteggano dai pericoli e lo guidino nella conoscenza del mondo e nell'apprendimento delle sue regole. Il bambino ha bisogno di sentire di poter fare affidamento su caregiver buoni, forti e amorevoli.
In linea con il pensiero di Bowlby (1969), la Control Mastery Theory concepisce l'attaccamento come una motivazione centrale nei primi anni di vita. Il bambino si impegna attivamente, fin dai primi giorni di vita, a cercare la vicinanza del caregiver, specialmente quando è affamato, spaventato o in preda a uno stato di malessere, per assicurarsi protezione, cura e conforto. Se la vicinanza e la disponibilità di una persona pronta ad aiutarci in caso di difficoltà costituiscono la migliore polizza assicurativa che possiamo avere in qualunque fase della nostra vita, per un bambino piccolo rappresentano una questione di sopravvivenza fondamentale: la prossimità di un adulto pronto a occuparsi di lui gli consente di sentirsi al sicuro.

Considerazioni di sicurezza

Qualsiasi condizione aumenti la nostra possibilità di sopravvivenza ci fa sentire al sicuro, qualsiasi condizione la diminuisca ci fa sentire in pericolo. La valutazione della realtà in termini di sicurezza e pericolo è fondamentale ai fini dell'adattamento e noi regoliamo sempre il nostro comportamento in virtù di tali considerazioni: aspettiamo che scatti il semaforo verde o che non sfreccino le auto prima di attraversare la strada e aspettiamo un segnale d'intesa prima di farci avanti con qualcuno che ci piace. Di più, siamo in grado di valutare la sicurezza dell'ambiente che ci circonda, e di regolare di conseguenza il nostro comportamento e l'accesso di contenuti mentali alla consapevolezza in maniera completamente inconscia. Sono ormai molte le evidenze empiriche che dimostrano come gli essere umani siano in grado di effettuare valutazioni, anche complesse, e di regolare il loro comportamento di conseguenza, senza esserne consapevoli (vedi ad es. Gabbard, 2011).
Le origini della Control Mastery Theory possono rintracciarsi in un brevissimo articolo di Joseph Weiss pubblicato nel 1952: “Il pianto al lieto fine”. Weiss si interroga sul particolare fenomeno per cui lo spettatore immerso nella visione di un film d'amore non piange durante lo scorrere della trama che vede i protagonisti litigare e separarsi per un periodo di tempo, ma si lascia andare alle lacrime solo dopo aver appurato la loro riconciliazione e il loro ricongiungimento: appunto, piange solo al lieto fine. Perché? Perché piangere quando tutto va bene e i protagonisti sono felici? Perché non prima? Weiss suggerisce che le persone piangano al lieto fine, perché, identificandosi con i protagonisti del film, solo in quel momento si sentono sufficientemente al sicuro per permettersi di esperire quei sentimenti spiacevoli che durante il dramma dell'intreccio avevano vissuto come troppo pericolosi per poterli sperimentare. La constatazione del “lieto fine” segnala che il pericolo è passato, che le difese possono essere abbassate e le emozioni prima represse vissute e padroneggiate.
Gazzillo (2016) riporta alcuni esempi tratti dalla vita quotidiana in cui è possibile scorgere il medesimo fenomeno. Sottrarsi a un incidente automobilistico mediante un rapido movimento di sterzo che permette di evitare un impatto frontale, porta il conducente dell'auto a sentire il bisogno di fermarsi dopo aver proseguito per qualche centinaio di metri. E' solo in quel momento che avverte il terrore e i sintomi fisici a esso interrelati e si sofferma a parlare dell'accaduto con gli altri viaggiatori: dopo aver constatato di essersi messo in salvo insieme alle persone a lui care, si sente sufficientemente al sicuro per permettersi di vivere il terrore che nella fase critica sarebbe stato troppo pericoloso sperimentare (lo avrebbe ostacolato nel mantenere la lucidità necessaria per compiere la manovra di emergenza) e di potersi confrontare ed elaborare quello che era accaduto e ciò che poteva accadere. Tutto ciò è avvenuto al di fuori della sua consapevolezza: un meccanismo inconsapevole di valutazione del pericolo e di regolazione del comportamento ha fatto sì che uno specifico stato affettivo venisse prima inibito e poi vissuto. Per quanto la realtà oggettiva ricopra un ruolo essenziale in questo processo (come evidenziato dall'esempio sopra riportato), in molte altre situazioni acquisiscono un ruolo egualmente o addirittura più rilevante le nostre concezioni sulla realtà: ciò che crediamo essere reale e il modo in cui noi crediamo che il mondo e il nostro rapporto con esso debba essere.
Un uomo di cinquant'anni pianse per la prima volta, dopo parecchi anni, in seguito alla morte della sorella. Aveva perso il padre ancora adolescente. Era il figlio più grande di una numerosa fratria. La madre era fragile e poco in grado di fronteggiare le incombenze della vita e di occuparsi dei figli: aveva sempre vissuto all'ombra del marito. Alla morte del padre, Giorgio sentì la responsabilità della madre e dei fratelli, si sentì in dovere di occuparsi di loro, di essere “forte”: non versò una lacrima durante i funerali, preoccupato di lenire la disperazione dei suoi familiari. Negli anni seguenti, pur riuscendo ad affermarsi professionalmente e a formarsi una famiglia sua, continuò a essere un punto di riferimento stabile per la sua famiglia di origine: si prodigava costantemente per loro, sacrificando il suo riposo e i suoi bisogni. Se l'indipendenza raggiunta dai fratelli l'aveva in parte sollevato dal carico delle responsabilità, la malattia psichiatrica in cui era incorsa la sorella e il male che in seguito la portò alla morte costituirono per lui una preoccupazione gravosa, una causa per la quale doveva continuare a sacrificarsi. Quando la sorella morì, Giorgio si sorprese a scoppiare in un pianto disperato: pensò al dolore che la morte del padre gli aveva provocato, al senso di solitudine da cui era presto fuggito, al timore, che originariamente non si era permesso di provare, di non riuscire a occuparsi della sua famiglia e di se stesso senza un padre alle spalle. La morte della sorella, che aveva seguito di qualche anno quella della madre, lo aveva sollevato da quelle che credeva fossero le sue responsabilità: non era più tenuto a essere forte, non c'era più nessuna persona fragile di cui doveva occuparsi, poteva finalmente sentirsi sufficientemente al sicuro per esprimere la propria tristezza, presente e passata, e il proprio antico dolore, tornando a occuparsi di sé.
La Control Mastery Theory sottolinea che quando le persone si sentono al sicuro, riescono a elaborare i propri traumi, a esprimere i propri affetti, a superare i propri problemi, a raggiungere uno stato di benessere e a perseguire i propri obiettivi. Come le ossa guariscono dopo una frattura se il chirurgo ortopedico è in grado di predisporre le condizioni ottimali affinché ciò possa avvenire, così la mente può guarire dagli esiti di esperienze avverse se trova le condizioni ottimali che glielo consentano (Bowlby, 1988). Pertanto, lo scopo principale e sovraordinato di ogni psicoterapeuta Control Mastery Theory è quello di fare sentire al sicuro i propri pazienti; e, come ogni frattura ha bisogno di un intervento specifico, ogni “mente”, ogni “persona” ha bisogno di una psicoterapia “caso-specifica”.

Credenze, credenze patogene e sensi di colpa interpersonali

Come detto, l'essere umano è fortemente motivato a formarsi una conoscenza affidabile del mondo fisico e interpersonale, fin dai primi giorni di vita. Gli studi nell'ambito dell'Infant Research ci hanno ormai fornito una mole consistente di prove a sostegno delle precoci capacità del bambino di cogliere contingenze tra gli eventi, e tra gli eventi e il proprio comportamento, di memorizzare e di organizzare le informazioni che riceve dal mondo esterno, creandosi delle aspettative e reagendo in modo congruo a esse (Beebe, Lachmann, 2002). Precocemente il bambino si forma delle previsioni relative al comportamento delle principali figure che si occupano di lui nelle diverse situazioni e organizza le sue risposte emotive e comportamentali di conseguenza. Gradualmente doterà il mondo di significato, ne costruirà le leggi di funzionamento e imparerà a interagire con esso. In questo processo, i genitori, autorità assoluta per il bambino, hanno un ruolo fondamentale. Con il loro esempio, i loro insegnamenti e i modi con cui si pongono in relazione con lui, trasmettono al bambino tutta una gamma di conoscenze relative al mondo e a se stesso: “Chi sono io? Come devo essere? Come è il mondo? Come deve essere? Come funzionano le cose e i rapporti, e come devono funzionare?”
“Queste conoscenze sono state chiamate in molti modi diversi, rappresentazioni di sé e degli oggetti, imago, schemi, costrutti, rappresentazioni di interazione generalizzate, modelli operativi interni, aspettative ecc. Senza trascurare le loro differenze, tutti questi concetti rimandano grosso modo allo stesso ambito di senso, l’insieme delle rappresentazioni su noi stessi, gli altri, i rapporti tra noi e gli altri e il mondo, che fungono da guida per il nostro pensiero e il nostro comportamento. Weiss e Sampson hanno scelto il termine di credenze per descriverli, sussumendo sotto di esso le rappresentazioni esplicite e quelle implicite, quelle verbali, quelle per immagini e quelle procedurali. E sottolineano come la loro costruzione sia funzione della motivazione adattiva” (Gazzillo, 2016, pp. 11-12).
Le “credenze” non sono pensieri astratti e privi di affetti, ma “la rappresentazione del mondo reale e delle regole morali che lo governano e vengono costruite sulla base delle proprie esperienze e nel tentativo di adattarsi alla realtà” (Gazzillo, 2016, pag. 18). Gli affetti costituiscono la modalità preriflessiva e immediata, analogico-qualitativa, con cui elaboriamo le informazioni provenienti dalla realtà e, pertanto, contengono in nuce delle credenze. L'insieme delle credenze che ciascuno di noi sviluppa nel corso della vita costituisce la “mappa” con cui diamo significato al mondo e ci muoviamo in esso: è alla base della nostra personalità, della nostra “psicologia”.

Le Credenze Patogene

La Control Mastery Theory sottolinea come la psicopatologia derivi da credenze “negative”, dal carattere perentorio e scarsamente adattive, che si sviluppano in seguito a esperienze traumatiche reali, soprattutto durante l'infanzia e l'adolescenza, principalmente vissute con genitori e fratelli. Acquisiscono un carattere di traumaticità non solo quelle esperienze singole e inattese che fanno sentire l'individuo, o una persona a lui cara, gravemente in pericolo (traumi da shock), ma anche, e soprattutto, un'ampia gamma di situazioni ripetitive (traumi da stress), generalmente corrispondenti al protrarsi di rapporti disfunzionali: in entrambi i tipi di esperienze, la persona si sente sopraffatta da sentimenti negativi e/o vive il perseguimento di un obiettivo sano e normale come causa di una situazione di pericolo, sia interno (un sentimento spiacevole) sia esterno (qualcosa di negativo che accade al soggetto o a una persona per lui rilevante). Le credenze negative che originano da questo tipo di esperienze vengono definite “patogene” proprio perché legano bisogni, desideri, obiettivi sani e normali (dai più astratti ai più concreti) a un pericolo – che riguarda la persona o un suo caro – interferiscono con il benessere dell'individuo, ne ostacolano la realizzazione personale e relazionale, e sono fonte di psicopatologia. Possono essere espresse nella forma “Se... allora...”: “Se chiedo sostegno, graverò sugli altri e verrò rifiutato”, “Se sono autonomo, le persone a me care ne soffriranno”, “Se mi occupo di me stesso, invece di mettermi da parte e occuparmi delle persone a cui tengo, le ferirò...”, “Se esprimo me stesso, verrò criticato: sono inadeguato”, ect.
Un individuo può avere una qualche consapevolezza delle sue “credenze patogene” (anche se le reputa “dati di fatto” piuttosto che “visioni distorte della realtà”), ma in genere esse sono inconsce, o perché procedurali o perché rimosse in virtù della loro “pericolosità”.
Le “credenze patogene” possono essere tante quanto possono essere diverse le esperienze da cui esse sono state dedotte e quanti possono essere i modi in cui l'individuo ha vissuto una data esperienza traumatica. In maniera analoga a quanto la Main (1985) evidenziava relativamente ai Modelli Operativi Interni, esse non si limitano a essere una “interiorizzazione passiva” delle esperienze reali, ma una loro “ricostruzione attiva”, con finalità difensive (adattamento a situazioni traumatiche), influenzata dalle distorsioni cognitive tipiche dello psichismo infantile (si ricordi che la maggior parte delle credenze patogene si sviluppano in conseguenza di esperienze vissute durante l'infanzia e l'adolescenza) e, più in generale, dai limiti caratteristici della modalità analogico-qualitativa, caratteristica degli affetti, di elaborazione delle informazioni (le esperienze traumatiche hanno un impatto significativo sulla sfera emotiva).
Le credenze patogene, pertanto, si strutturano a partire dal pensiero illogico, pre-mentalistico e magico – caratterizzato da processi di attribuzione causale scorretta e ipergeneralizzazione – proprio del funzionamento psichico infantile. L'essere umano ha la tendenza, fondamentalmente adattiva, a generalizzare le conoscenze derivate dall'esperienza personale, e durante l'infanzia questa tendenza è acuita dal fatto che la povertà di esperienze pregresse non consente di relativizzare e contestualizzare un dato evento, specialmente se emotivamente gravoso. Inoltre, la difficoltà che i bambini hanno ad assumere prospettive diverse dalla propria, il loro sostanziale “egocentrismo”, li porta a controbilanciare il loro scarso potere con un'onnipotenza immaginaria. Ancora, le motivazioni prosociali e altruistiche (che l'evoluzione ha selezionato per il loro valore altamente adattivo) sono attive fin dalla più tenera età e portano il bambino a essere sensibile alla sofferenza delle persone a lui vicine e a sentirsi irrazionalmente responsabile delle loro sofferenze.
Infine, c'è un aspetto di primaria importanza che ci permette di gettare luce, oltre che sul carattere irrazionale tipico delle credenze patogene, sulla difficoltà che le persone hanno ad affrancarsene: ogni bambino dipende interamente dai suoi genitori, che sono per lui delle autorità assolute; ha la necessità di vederli come forti, giusti e buoni e di sentirsi al sicuro in rapporto con loro, e fa di tutto per riuscirci. Ogni bambino impara a conoscere la realtà così come i genitori gliela dipingono e cerca di capire cosa, implicitamente o esplicitamente, mamma e papà si aspettano da lui. Gli esempi dei genitori e i loro insegnamenti indicano al bambino non solo com'è la realtà, ma anche come “deve essere”, l'imperativo morale a cui deve assoggettarsi: il loro comportamento è quello giusto, il modo in cui lo trattano è il modo in cui egli merita di essere trattato. Necessitando di stare bene con loro, in caso di conflitto o disaccordo il bambino finisce per pensare di essere dalla parte del torto e se crede di aver causato loro sofferenze o dispiaceri, si sente profondamente in colpa e cerca di farli stare meglio.
Ogni credenza, non solo quelle patogene, tende a rimanere stabile nel tempo: è soggetta a processi di generalizzazione, a bias cognitivi di conferma, e necessita, per essere modificata, di ripetute e forti prove che la disconfermino. La plasticità cerebrale, ad ogni modo, assicura una certa dose di flessibilità: ci dà la possibilità, per tutta la vita, di farci tangere dall'esperienza e di modificare il nostro sistema di credenze. Tuttavia, una “credenza patogena” è molto più difficile da modificare. L'individuo, infatti, teme di allontanarsi dai “diktat” che le sue “credenze patogene” gli impongono, a causa dei pericoli che esse paventano, e che egli ritiene reali. Inoltre, esse guidano e plasmano i comportamenti individuali: pertanto, tali comportamenti tenderanno a suscitare negli altri risposte che saranno lette come una conferma delle credenze patogene su cui essi si basano.


I sensi di colpa interpersonali

Un ulteriore ostacolo, infine, è costituito dai potenti sensi di colpa inconsci che derivano da, e sostengono, le credenze patogene delle persone. Infatti, ogni “credenza patogena segnala l’esistenza di un conflitto tra il desiderio, innato e sostenuto da relazioni sufficientemente buone, di perseguire obiettivi sani e realistici, e il desiderio di conservare una relazione sicura con caregiver traumatici cristallizzato nella fede che si presta alle proprie credenze patogene.” (Gazzillo, 2016, pag. 24). Weiss (1993) sottolinea come “i bambini possono sentirsi in colpa per qualsiasi sentimento, atteggiamento o comportamento, anche il più sano, se hanno l’impressione o gli viene detto che esso suscita dolore o disapprovazione nei genitori o mette a repentaglio il rapporto con loro.” Ogni credenza patogena ha costituito il tentativo di mantenere una relazione sicura con i propri genitori (motivazione sovraordinata dell'individuo durante l'infanzia), a spese del proprio benessere e dei propri bisogni. Abbandonarle vuol dire anche allontanarsi da quella relazione ed elicita pressanti sensi di colpa che, a causa del loro carattere inconscio, esitano in manifestazioni disfunzionali e autosabotaggi.
La Control Mastery Theory identifica quattro principali sensi di colpa interpersonali: da odio di sé, da separazione/slealtà, da responsabilità onnipotente e del sopravvissuto.
Essi originano dalle motivazioni prosociali e altruistiche tipiche dell'essere umano e sono normalmente presenti in ciascuno di noi. Tuttavia, in presenza di esperienze, traumatiche, che portano alla formazione di credenze patogene, questi sensi di colpa acquisiscono un'intensità maggiore e sfociano in esiti patologici.

L'Odio di Sé

Come detto, in caso di disaccordo con i genitori, o se questi lo trascurano, lo maltrattano o abusano di lui, il bambino, per salvaguardare l'immagine amorevole dei suoi genitori, tenderà a credere di avere torto, di meritare il trattamento ricevuto e finirà per sentirsi indegno, cattivo, ect., a comportarsi in maniera congrua a questa autoassunzione sacrificale e/o ad aspettarsi di essere maltrattato allo stesso modo e/o di essere considerato negativamente. Osserva Fairbairn (1943, pp. 93): “E’ meglio essere peccatore in un mondo guidato da Dio che vivere in un mondo governato dal diavolo. Un peccatore in un mondo governato da Dio può essere cattivo; ma c’è sempre un certo senso di sicurezza che deriva dal fatto che il mondo all’intorno è buono (“Dio è nei Cieli – Tutto va bene nel mondo!”); e in ogni caso c’è sempre una speranza di redenzione. In un mondo governato dal diavolo l’individuo può sfuggire alla malvagità d’essere un peccatore; ma egli è cattivo perché il mondo che lo circonda è cattivo. Inoltre non può avere alcun senso di sicurezza né speranza di redenzione. L’unica prospettiva è quella della morte e della distruzione.” Bambini maltrattati, di età prescolare, che erano stati sottratti per questo ai genitori e affidati a un orfanotrofio, furono intervistati in seno a una ricerca (Beres, 1958) e le risposte che gli intervistatori ottennero furono sconvolgenti: tutti credevano di essere stati abbandonati dai genitori per qualcosa di cattivo che avevano fatto e nessuno di loro voleva essere affidato a una madre diversa dalla propria.

Il senso di colpa da separazione/slealtà

Il senso di colpa da separazione si sviluppa a partire dalla credenza che separarsi (fisicamente o idealmente) dalle persone care significhi farle soffrire, arrecar loro un danno, tradirle (Modell 1965, 1971; Asch, 1976; Weiss et al., 1986).

Il senso di colpa da responsabilità onnipotente

Il senso di colpa da responsabilità onnipotente (Asch, 1976; Weiss et al., 1986) deriva dalla convinzione di avere il dovere e di essere in potere di prendersi cura delle persone care in difficoltà, di essere responsabile dei loro malesseri. Una persona che soffre di questo senso di colpa ha difficoltà a separarsi o a occuparsi di se stessa nella misura in cui sente che ciò la porterebbe a venire meno ai suoi “doveri”, cosa che la farebbe sentire “cattiva” o “colpevole”.  

Il senso di colpa del sopravvissuto

Il senso di colpa del sopravvissuto deriva “dalla consapevolezza di avere qualcosa più di qualcun altro. [..] E' invariabilmente accompagnato dal pensiero, che può rimanere inconscio, che quello che si è ottenuto, è stato ottenuto a spese di qualcun altro a cui è stato sottratto” (Modell, 1971, p. 339). Questo senso di colpa si basa sull'assunto per cui la felicità e il benessere siano disponibili in quantità limitata, per cui la fetta di “felicità” di cui ci si nutre, la si è sottratta ai propri cari.

Adattarsi alle credenze patogene

Ciascun individuo può utilizzare diverse strategie, non mutualmente escludentesi, per adattarsi alle proprie credenze patogene. Esse non sono altro che strategie di coping, seppur disfunzionali (ma non di per sé!), con cui l'individuo cerca di far fronte alla sofferenza causata dai propri schemi patogeni. La Control Mastery Theory classifica queste strategie di coping in tre macro-categorie:
a) la compiacenza (compliance) rispetto agli esempi e agli insegnamenti dei genitori: l'individuo si assoggetta completamente ai suoi schemi patogeni, comportandosi e/o vivendosi in maniera conforme ai loro dettami o evitando le situazioni temute;
b) la ribellione contro l’esempio e gli insegnamenti dei genitori, a cui si associano profonde angosce di perdita, sensi di colpa e autopunizione: l'individuo si oppone esplicitamente ai dettami delle proprie credenze patogene, ma lo fa in una maniera autosabotante (che spesso lo porta a trovare una conferma dei propri timori) o sviluppa sintomi psicopatologici;
c) l’identificazione con i genitori: l'individuo fa proprio il comportamento traumatizzante dei genitori per acquisire un senso di padronanza.
La sofferenza, i problemi e la psicopatologia degli individui sono, pertanto, espressione dei modi con cui essi si sono adattati alle proprie credenze patogene. La gravità delle loro problematiche è funzione di una serie di variabili: il numero, l'intensità e la perduranza delle esperienze traumatiche vissute, la presenza e la rilevanza di esperienze positive (con figure di riferimento amorevoli, ad esempio), le caratteristiche personali (fattori temperamentali, sensibilità, intelligenza, ect). Come l'aumento di temperatura corporea, quando abbiamo la febbre, ha la funzione di ridurre la proliferazione dei microrganismi patogeni da un lato, e di incrementare l'attività delle cellule con funzione immunitaria dall'altro, così la psicopatologia risulta essere il miglior adattamento a cui un individuo riesce a giungere in determinate circostanze e con le risorse che ha a disposizione (Sandler, Joffe, 1969), il modo con cui cerca disperatamente di mantenere una sensazione di sicurezza, seppur a spese del proprio benessere, e, al contempo, un segnale che lo porta a cercare una soluzione, che lo spinge a mettersi alla ricerca di una strada in cui non sia la forclusione della sua felicità a garantirgli la sicurezza. Infatti, gli individui sono fortemente motivati, sia consciamente sia inconsciamente, a raggiungere i propri obiettivi e a superare le credenze patogene di cui soffrono e che li ostacolano; e si adoperano a tale scopo. Vedremo come! Ma prima...

Cosa andiamo a cercare

La Control Mastery Theory sottolinea come le persone giungano in terapia allo scopo di essere aiutate a elaborare i propri traumi e a superare le credenze patogene (e i sensi di colpa associati) che ne sono derivate e che ostacolano il raggiungimento dei propri obiettivi sani e desiderabili. Si adoperano a tale scopo, sia consciamente sia inconsciamente, collaborando attivamente con il clinico e cercando di fornirgli, specialmente nelle prime sedute, tutte le informazioni che possano aiutarlo ad aiutarli.
Ma cosa “andiamo a cercare”, noi terapeuti, mentre ascoltiamo una persona che si è rivolta a noi? Ci interessiamo alle varie aree e ai vari aspetti della sua vita, prestiamo attenzione al racconto dei suoi problemi personali e relazionali, alle sue risorse, accogliamo le narrazioni relative al suo passato, ai suoi traumi, al suo presente, al suo futuro, ai suoi desideri, ai suoi vissuti, alle sue paure. Osserviamo come si rapporta con noi, come reagisce ai nostri interventi e ai nostri comportamenti, cerchiamo di capire cosa lo fa sentire a suo agio e cosa a disagio, osserviamo le emozioni che ci suscita. E, durante quest'immersione in cui cerchiamo di vedere il mondo dalla sua prospettiva, ci sforziamo di cogliere gli obiettivi che vuole raggiungere e le credenze patogene da cui è ostacolato. In altri termini, cerchiamo di individuare gli schemi problematici che ricorrono nella sua narrazione e nel rapporto con noi: i modi in cui il paziente si aspetta, consciamente o meno, che gli altri reagiscano ai suoi comportamenti e ai suoi desideri, le rappresentazioni di sé e i vissuti che discendono da queste aspettative, e le sue personali modalità di risposta (anche anticipatorie) alle reazioni temute o effettive dell'altro. Cerchiamo i “temi relazionali conflittuali centrali” (CCRT) del paziente, costituiti, ciascuno, dalla successione di “tre elementi centrali: il desiderio del paziente (W, wish), la risposta reale o presunta dell'altro con cui il paziente è in relazione (RO) e infine la risposta soggettiva o del Sé (RS)” (Luborsky, Luborsky, 2000, pp. 57-58).

Una storiella, tratta da “Istruzioni per rendersi infelici” (1983) di Watzlawick, permetterà di chiarirci meglio alcuni dei concetti che abbiamo trattato e altri che tratteremo in seguito.

Un uomo deve appendere un quadro: ha un chiodo, ma non il martello. Il vicino ne ha uno, così
decide di andare da lui e di farselo prestare. A questo punto gli sorge un dubbio: E se il mio vicino
non me lo vuole prestare? Già ieri mi ha salutato appena. Forse aveva fretta, ma forse la fretta era
soltanto un pretesto ed egli ce l'ha con me. E perché? Io non gli ho fatto nulla, è lui che si è messo in testa qualcosa. Se qualcuno mi chiedesse un utensile, io glielo darei subito. E perché lui no? Come si può rifiutare al prossimo un così semplice piacere? Gente così rovina l'esistenza agli altri.
E per giunta s'immagina che io abbia bisogno di lui solo perché possiede un martello. Adesso basta! E così si precipita di là, suona, il vicino apre, e, prima ancora che questo abbia il tempo di dirgli “buongiorno”, gli grida: "Si tenga pure il suo martello, villano!"

Chiaro che si tratta di un esempio estremo (l'uomo in questione è verosimilmente un paranoico grave); ma gli esempi estremi ci permettono di osservare e comprendere meglio i fenomeni che vogliamo studiare. Qual è la credenza patogena che possiamo dedurre abbia spinto l'uomo a pensare, a sentire e a comportarsi in questo modo? Qual è il suo desiderio? Necessita di qualcosa che non ha, ha bisogno di aiuto, di sostegno: questo è il suo desiderio, questo è il suo obiettivo. Qual è la risposta che si aspetta dall'altro? Cosa associa al suo desiderio? Rifiuto, ostilità. La credenza patogena che, dunque, possiamo verosimilmente inferire è la seguente: “Se chiedo aiuto, verrò rifiutato e trattato con ostilità”. Non conosciamo altri episodi in cui l'uomo si è comportato in modo analogo – se fosse stato nostro paziente, avremmo potuto ascoltarne altri e/o avremmo potuto chiedergli se gli fossero capitati altri episodi simili – e, dunque, non possiamo ad esempio essere certi che la sua credenza patogena si riferisca a qualsiasi situazione in cui l'uomo si senta bisognoso di aiuto, o riguardi solamente alcuni tipi di situazione (ad esempio, con figure maschili). Supponiamo, però, di aver ascoltato altri episodi analoghi e di poter stabilire con abbastanza certezza che una delle credenze patogene centrali del paziente è: “Se chiedo aiuto, verrò rifiutato e trattato con ostilità”. Da quali traumi si è originata questa credenza patogena? Per quello che ne sappiamo da questa vignetta, la risposta è “boh!”. Se l'uomo fosse stato un nostro paziente, avremmo potuto chiedergli cosa lo schema patogeno in questione gli facesse venire in mente; avremmo potuto rispondere a questa domanda dopo aver ascoltato i racconti del suo passato; avremmo potuto chiedergli del suo rapporto con i genitori o altre figure significative, se non ce ne avesse parlato liberamente. A ragione, comunque, possiamo ipotizzare che l'uomo abbia sviluppato questa credenza patogena a causa di ripetute situazioni in cui si è trovato a chiedere aiuto ed è stato rifiutato e trattato con ostilità.
Altre considerazioni. L'uomo ha letto la “fretta” del vicino con la lente fornitagli dalla sua credenza patogena: ecco il “bias cognitivo di conferma” a cui prima accennavamo. Quella “fretta” potrebbe veramente significare tante cose e, con molta probabilità, era stata determinata da motivazioni personali del vicino; ma per l'uomo, c'è una sola “realtà” (per quanto inizialmente egli stesso abbia colto “l'oggettività della fretta”). Ancora. Cosa rispondereste voi a un vicino che, dal nulla, bussa alla vostra porta e vi tratta inspiegabilmente in questo modo? La maggior parte delle persone avrebbe una reazione compresa tra l'incredulità, la paura, la derisione e la rabbia. Rimarrebbe immobile e basita, chiuderebbe spaventata la porta, riderebbe della stramberia del vicino, lo manderebbe al quel paese o lo aggredirebbe verbalmente (o fisicamente) nella misura in cui egli non dovesse desistere dalle sue ingiuste e aggressive recriminazioni. In tutti questi casi, l'uomo penserebbe: “Vedi? Avevo ragione! Ce l'ha con me! Non mi vuole aiutare!” Scambierebbe l'effetto con la causa: ecco come il comportamento suscitato negli altri giunge a divenire una prova della validità delle proprie credenze patogene.
Le credenze patogene non sono delle semplici ipotesi: rappresentano la realtà per la persona che ne soffre. L'altro rifiuta di darmi aiuto e mi tratta ingiustamente con ostilità e io, “giustamente”, mi arrabbio. Papà rifiuta di darmi aiuto e mi tratta ingiustamente con ostilità e io, giustamente (senza virgolette), mi arrabbio. Arrabbiarsi implica il riconoscimento delle mancanze altrui nei nostri confronti, la ribellione all'idea di meritare rifiuto e ostilità – in questo caso – , il sentirsi degni di qualcosa di meglio. L'aggressività è una strategia di coping adattiva: uno dei modi con cui possiamo reagire alle situazioni in cui ci sentiamo in pericolo. Pertanto, in questo caso, come nella maggior parte dei casi, il problema non sta nel “coping”, nel modo in cui ci adattiamo a una determinata credenza patogena, ma nella “credenza patogena”, nelle aspettative false e irrazionali che, oltre a condizionare il nostro comportamento e le nostra visione della realtà, ci fanno soffrire. Da clinici, è di questo che dobbiamo occuparci: il contributo del paziente ai cicli interpersonali disfunzionali può, eventualmente – sempre che il paziente non viva ciò come una critica – divenire oggetto d'attenzione solo dopo che – se dell'uomo di Watzlawick ci stessimo occupando – il paziente è giunto a sentire chiaramente che noi valorizziamo il suo diritto di chiedere aiuto, ci sente dalla sua parte, ha chiaro che noi NON crediamo meriti rifiuto e ostilità e può constatarlo osservando il nostro atteggiamento nei suoi confronti; se facciamo ciò, tuttavia, potrebbe anche non essere necessario: se ci si arriva a sentire in diritto di chiedere aiuto e ci si aspetta di venire accolti quando si chiede aiuto, un comportamento come quello tenuto dall'uomo della storiella non lo si terrebbe.
Ma stiamo anticipando un'altra questione, con la quale potremmo rispondere a una domanda che probabilmente molti di voi si sono fatti: “ma se quest'uomo si aspetta di ricevere rifiuto e ostilità chiedendo aiuto, perché lo fa?”



Test e processo terapeutico

Ognuno di noi valuta costantemente l'ambiente che lo circonda e organizza il suo comportamento in virtù dei suoi desideri e dell'esito delle sue valutazioni. Se, ad esempio, ho voglia di bere una birra fresca, apro il frigo e controllo che ne sia rimasta una. Se la trovo, la bevo; altrimenti scendo in strada e vado ad acquistarla al bar sotto casa. Come prima cosa, metto alla prova la credenza: “mi è rimasta una birra in frigo”. Se malauguratamente la mia credenza viene disconfermata dai fatti, ne metto alla prova un'altra: “c'è un bar sotto casa mia”; e, ancora, un'altra: “il bar sotto casa mia è aperto a quest'ora”. “E speriamo bene...”
Il modo principale con cui esploriamo il nostro ambiente, compreso quello interpersonale, è mettendo alla prova le nostre credenze. Il processo di “messa alla prova” può essere cosciente quanto inconscio e tiene conto non solo dei processi cognitivi, ma anche, e soprattutto, delle reazioni affettive. Quando conosciamo una persona, ad esempio, per valutare se possiamo trovarci bene con lei, cerchiamo di capire con chi abbiamo a che fare e che tipo di rapporto possiamo aspettarci, la mettiamo alla prova e dalle risposte che riceviamo traiamo le nostre conclusioni, et voilà: nel giro di poco tempo, decidiamo se quella persona può piacerci o meno, se ci sta simpatica o meno, e come possiamo rapportarci con lei. Solo parte di questo processo di valutazione è consapevole: spesso può capitarci che una persona ci stia simpatica o meno “a pelle”, senza sapere il perché.
Nei rapporti interpersonali, mettiamo soprattutto alla prova le nostre “credenze patogene”. Per quanto, per i motivi illustrati in precedenza, le persone trovino molto difficile affrancarsi dalle loro credenze patogene, per via della sofferenza che provocano sono al contempo estremamente motivate a metterle alla prova per cercare di attestarne la falsità. E ciò avviene talvolta consapevolmente, ma soprattutto inconsciamente, nella vita di ogni giorno, come in psicoterapia.
Per la Control Mastery Theory, “il processo terapeutico è il processo attraverso il quale il paziente, con l'aiuto del terapeuta, lavora per disconfermare le sue credenze patogene” (Weiss, 1993, p. 30). A tal fine, il paziente farà dei “test” al terapeuta: metterà inconsciamente alla prova con lui le sue credenze patogene, sperando di ricevere una risposta che gli mostri che il terapeuta non le condivide, le reputa false e che lo legittimi ad abbandonarle e a perseguire i suoi obiettivi sani e desiderabili. Come dimostrato da numerose ricerche empiriche (Weiss et al., 1986; Weiss, 1993), quando il terapeuta supera un test del paziente, quest'ultimo diventa più rilassato, meno angosciato, più sicuro di sé e più capace di insight; si avvicina ai suoi obiettivi e, successivamente, può testare con ancora più forza le sue credenze patogene. Al contrario, se il terapeuta fallisce un test, il paziente diventa più teso e angosciato, più insicuro e inibito, e meno capace di insight, si allontana dai suoi obiettivi e diventa meno audace nel mettere alla prova le sue credenze patogene con il clinico.
L'obiettivo sovraordinato del terapeuta è fare sentire al sicuro il paziente, e per farlo sentire al sicuro deve, mediante i suoi interventi e le sue risposte, superare i test che il paziente gli fa e disconfermare le sue credenze patogene. Una terapia di successo giunge alla sua conclusione quando il paziente, avendo ricevuto un numero che ritiene sufficiente di disconferme delle sue credenze patogene, si sente libero di abbandonarle, raggiunge i suoi obiettivi e smette di testare il terapeuta.
Ma in che modo un paziente può testarci? In infinito modi: mediante richieste, comportamenti, atteggiamenti, raccontandoci fatti della sua vita, presenti o passati, parlando di sé o di altri in un certo modo, ect. E in ogni occasione, osserverà con attenzione la nostra reazione, il modo in cui noi interveniamo, verificando se contrasta o meno la credenza patogena che sta mettendo alla prova in quel momento.
Riprendiamo per un attimo “l'omino di Watzlawick” e la domanda: “ma se quest'uomo si aspetta di ricevere rifiuto e ostilità chiedendo aiuto, perché lo fa?” Risposta: perché mette alla prova la credenza patogena di meritare rifiuto e ostilità se chiede aiuto. “Ma perché lo fa in maniera così controproducente?”
Ogni credenza patogena è il risultato di un tentativo di adattamento a situazioni traumatiche. Paventando un determinato pericolo, in origine ha permesso all'individuo di evitare o limitare le ritraumatizzazioni a cui era esposto nel suo ambiente di sviluppo traumatico. Avendo subito un processo di generalizzazione, tuttavia, essa è divenuta la “realtà dell'individuo”: un modo costante di leggere le situazioni in cui la persona desidera o ha bisogno di soddisfare quell'obiettivo che la credenza patogena considera “pericoloso”. Le persone, pertanto, sono estremamente spaventate all'idea di ignorare o sfidare le ingiunzioni prescritte dalle credenze patogene, che, ricordiamolo, sono ricoperte della stessa “aurea autoritaria” di cui l'individuo da bambino aveva ricoperto i suoi genitori. Le persone, tuttavia, sono al contempo molto motivate a superare le proprie credenze patogene, ad attestarne la falsità, in quanto fonti di inibizioni e di profonda sofferenza. Per farlo, però, hanno bisogno di sentirsi al sicuro. Ogni paziente valuta, consciamente e inconsciamente, il grado in cui, nella relazione con il clinico, può sentirsi al sicuro nel mettere alla prova le sue credenze patogene. E' estremamente attento rispetto alle reazioni del terapeuta, per cercare di capire se questi condivide i dettami delle sue credenze disfunzionali o li disapprova. Lo mette alla prova senza abbandonare completamente le sue credenze, per non sentirsi eccessivamente in pericolo. Inoltre, essendo sorte come tentativo di mantenere un rapporto positivo con i genitori, sfidare le proprie credenze patogene porta l'individuo a sentire di recidere quell'antico legame e ciò, come detto, gli elicita forti sensi di colpa inconsci che sfociano in manifestazioni disfunzionali e autosabotaggi, con cui inconsciamente cerca di espiare, punendosi, “la propria colpa”.
L'uomo descritto da Watzlawick era estremamente convinto che il vicino gli fosse ostile e che non gli volesse accordare il suo aiuto e, pertanto, si era recato da lui con la corazza che gli avrebbe consentito di difendersi nel caso in cui la sua credenza patogena avesse trovato un riscontro nella realtà. Non poteva abbandonare questa corazza e si sarebbe sentito in colpa nel farlo: se si fosse sentito meritevole di aiuto, di un trattamento solerte, avrebbe implicitamente dimostrato l'inadeguatezza del comportamento che i suoi genitori (ipotizziamo) avevano tenuto nei suoi confronti (senso di colpa da Odio di Sé). Inoltre, dato che le credenze patogene originano da esperienze disfunzionali ripetute e/o estremamente gravose, il valore di verità che il soggetto attribuisce loro, lo spinge a cercare prove contrarie ugualmente forti nel suo tentativo di disconfermarle: se penso di essere rifiutato e trattato con ostilità se chiedo aiuto, mi comporto in modo da aumentare la possibilità che ciò accada e se, come spero, vengo invece accolto e aiutato, posso sentirmi rassicurato circa la falsità della mia credenza, e posso pertanto sentirmi al sicuro nell'abbandonarla. Chiaro che quanto più sono stati gravi e persistenti le esperienze traumatiche vissute, tanto più “estreme” saranno le manifestazioni comportamentali che l'individuo metterà in atto al fine di disconfermare le credenze che da esse ha dedotto.
La Control Mastery Theory evidenzia tre macro-modalità con cui una persona può mettere alla prova le proprie credenze patogene, tre tipi di test:
a) i test di transfert per compiacenza, in cui il paziente si comporta in obbedienza ai dettami prescritti dalle proprie credenze patogene, sperando che il terapeuta gli faccia capire che non è necessario. Ad esempio, un paziente che vuole mettere alla prova in questo modo la credenza patogena “se chiedo aiuto, verrò rifiutato”, potrà minimizzare i suoi problemi, dire che può occuparsi di sé da solo, dire di poter fare a meno della terapia, ect., sperando inconsciamente che il terapeuta si opponga a queste sue modalità, valorizzi il suo diritto di essere aiutato e si occupi attivamente di lui.
b) i test di transfert per ribellione, in cui il paziente si comporta in maniera opposta a quanto prescritto dalle proprie credenze patogene, sperando che il terapeuta gli faccia capire che ne ha tutto il diritto, proteggendolo da eventuali autosabotaggi. In questi casi, in virtù dei propri sensi di colpa inconsci, il paziente può ribellarsi in maniera “eccessiva”, può sviluppare dei sintomi o comportarsi in modo tale da suscitare negli altri risposte che confermano la sua credenza patogena. La credenza patogena “se chiedo aiuto, verrò rifiutato” potrà essere così messa alla prova con il terapeuta mediante la richiesta di sedute aggiuntive o con frequenti telefonate tra una seduta e l'altra: la risposta del terapeuta dovrà essere valorizzante nei confronti del suo bisogno di chiedere aiuto e dovrà accogliere, nei limiti del possibile, le sue richieste.
c) i test di capovolgimento da passivo in attivo, in cui il paziente si identifica con il genitore traumatico, trattando gli altri nello stesso modo traumatizzante in cui è stato trattato. Con questo tipo di test egli spera inconsciamente di imparare dalla persona che “attacca” un modo diverso di fronteggiare la situazione traumatica subita in passato. Se in terapia un paziente ci fa test di questo tipo, dobbiamo cercare di mantenerci calmi e sereni e di non giustificarci (senza interpretare la sua identificazione immediatamente: il paziente con molta probabilità la percepirebbe come una giustificazione, un segno del fatto che con il suo comportamento ci ha feriti); se, invece, ci racconta situazioni in cui ha trattato così altre persone della sua vita, dobbiamo difendere queste ultime.
I pazienti possono mettere alla prova una stessa credenza patogena con ognuno dei tipi di test sopra-delineati e possono utilizzare comportamenti anche molto diversi tra loro; possono testare con diversi comportamenti, anche opposti, una stessa credenza patogena, possono testare con uno stesso comportamento credenze patogene diverse in momenti diversi della terapia, o addirittura della stessa seduta, e, specialmente nei casi più gravi, possono testare contemporaneamente più credenze patogene con uno stesso comportamento. Il terapeuta deve essere in grado di cogliere il tipo di test e riconoscere la credenza patogena che il paziente sta testando con lui in uno specifico momento. Per fare questo, è necessario che sia giunto a una esauriente comprensione del funzionamento del paziente, che abbia compiuto una formulazione, come vedremo insieme, quanto più accurata possibile del suo “piano inconscio”.
Con i test, i pazienti non fanno altro che mostrarci gli esiti disadattivi delle relazioni traumatiche che hanno vissuto e ci chiedono di fornirgli una “esperienza emozionale correttiva”, strettamente caso-specifica, che dobbiamo cercare di dargli.
Come? Come possiamo superare i test dei pazienti?
Riprendiamo la storiella di Watzlawick. L'uomo sta mettendo alla prova la sua credenza patogena di meritare ostilità e rifiuto se chiede aiuto. Bussa al vicino, ma anziché chiedergli una mano, “chiedergli il martello”, inveisce contro di lui accusandolo implicitamente di non volerlo aiutare. Se ciò fosse capitato in terapia? Se si fosse scagliato allo stesso modo contro il terapeuta accusandolo di non volergli accordare una seduta in più? Come il terapeuta avrebbe potuto rispondere per superare il test del paziente? Non c'è un solo modo: esistono diversi modi con cui è possibile superare i test dei pazienti e diversi modi con cui invece si rischia di fallirli. Nella scelta del “modo”, bisogna anche tenere in considerazione come il paziente potrebbe leggere la nostra reazione. Un richiamo alla calma, un ritiro spaventato, potrebbero divenire, per un paziente che sta testando la credenza patogena “se chiedo aiuto, verrò rifiutato e trattato con ostilità”, indicazione di rifiuto, al di là della reale intenzione del suo interlocutore. E questo varrebbe per qualsiasi intervento, anche “tecnicamente corretto” (un'interpretazione di un certo tipo, se per esempio ci muoviamo con un approccio psicodinamico; ma lo stesso discorso è applicabile a qualunque tipo di modello di psicoterapia), che il paziente arrivi a leggere come “rifiuto” o “ostilità”, in questo caso. E ogni paziente, “anche a parità di credenza patogena”, legge la realtà in maniera personale: pertanto, il nostro approccio deve sempre essere strettamente “caso-specifico”, sia in considerazione degli obiettivi e delle credenze patogene del paziente, sia in considerazione del suo modo di recepire i nostri interventi e il nostro atteggiamento. E ricordiamoci che per il paziente non esiste la “neutralità del terapeuta”: egli vive sempre le risposte del clinico come favorevoli, contrarie, o al più indifferenti, alle sue credenze patogene; ma necessita, per stare meglio, di avvertire il terapeuta sempre e comunque dalla sua parte (ciò non necessariamente implica che dobbiamo essere compiacenti rispetto a tutte le sue richieste “consce”, che non di rado possono essere riflesso delle sue credenze patogene).
Come potremmo rispondere dunque all'ipotetico uomo di Waztlawick? L'atteggiamento opportuno dev'essere opposto a quello tenuto dal genitore con cui ha vissuto l'esperienza traumatica da cui ha inferito la credenza patogena che sta testando con noi: accogliente e cordiale. Ecco alcuni esempi possibili di risposta: “Mi dica... se desidera una seduta in più se ne può senz'altro parlare... se posso, mi fa piacere venirLe incontro...”; “In questo momento sente un forte bisogno di essere sostenuto... ma teme che anch'io, come ha fatto suo padre in molte occasioni, possa rifiutarLa e trattarLa con ostilità... ma io penso che Lei abbia tutto il diritto di chiedere aiuto e di riceverlo...”; “Lei è arrabbiato con me perché crede che non voglia accordarLe una seduta in più... crede che non mi curi del suo bisogno di essere sostenuto... e se fosse così avrebbe ragione a essere arrabbiato...”; ect.
Attenzione! Con un comportamento pressoché identico, lo stesso paziente potrebbe mettere alla prova la stessa credenza patogena con un test da passivo in attivo: ad esempio, se gli chiedessimo di spostare una seduta per delle nostre esigenze, potrebbe accusarci per questo, trattarci con ostilità e maltrattarci. In questo caso, il tipo di risposta da dare sarebbe completamente diverso. Dovremmo rimanere sereni e porre dei limiti se necessario: in questo modo il paziente potrà apprendere da noi un modello di risposta più funzionale di quello da lui adottato in passato, procedendo così verso l'elaborazione e il padroneggiamento del suo trauma.

A proposito d'interpretazione

Per superare i test dei pazienti, non è necessario nessun tipo di intervento particolare: è importante il messaggio relazionale che si veicola, l'esperienza correttiva che si fornisce al paziente, al di là dei modi e delle tecniche. Altresì, il paziente diverrà automaticamente più capace di insight dopo un test superato. Non è l'interpretazione del terapeuta a favorire l'insight del paziente, ma l'aumento del grado di sicurezza a cui porta il superamento di un test: ci sono dati di ricerca a supporto di questo assunto; di una ricerca svolta sui trascritti di un'analisi classica, tra l'altro (Weiss, 1993).
Ad ogni modo, aiutare il paziente a comprendere da quali esperienze siano derivate le sue credenze patogene, sottolineare il valore adattivo che esse avevano avuto e lo scopo (mantenere una relazione amorevole con i propri caregiver traumatici) che si erano prefisso, ed evidenziarne la ricorsività in situazioni diverse, lo aiuta a generalizzare i progressi compiuti in terapia e ad acquisire un maggior senso di padronanza. Non sempre tuttavia: con pazienti che vivono le interpretazioni come critiche, è bene evitarle (almeno fino a quando essi continuano a viverle così).

Compiti e incoraggiamenti

I compiti a casa e gli “incoraggiamenti a fare” possono essere ugualmente molto utili se, in linea con gli obiettivi del paziente, rappresentano una disconferma delle sue credenze patogene.


Il piano del paziente

Riassumendo, ogni paziente giunge in terapia a causa di problemi derivati da credenze patogene che lo ostacolano nel perseguimento degli obiettivi sani (e non sempre consapevoli) che vuole raggiungere. Queste credenze sono state inferite da esperienze traumatiche reali (da shock e/o da stress) occorse principalmente nel corso dell'infanzia e dell'adolescenza. Per quanto sia estremamente spaventato all'idea, il paziente desidera ardentemente superare i suoi problemi e raggiungere i suoi obiettivi: cerca di farlo mettendo alla prova le sue credenze patogene, mediante test che rivolge al clinico e con il quale spera inconsciamente di ricevere una risposta che disconfermi i suoi timori.
La Control Mastery Theory sottolinea come il paziente possegga un “piano inconscio” di massima con cui portare avanti questo lavoro. Testerà le sue credenze patogene in modi e con un ordine che dipenderà da quanto si sente sicuro, durante le varie fasi della terapia, nella relazione con il clinico: testerà prima le credenze patogene che lo spaventano di meno e con i modi (tipi di test) che lui considera meno pericolosi e gradualmente, man mano che il terapeuta supera le sue credenze patogene e gli permette così di acquisire maggior sicurezza nel rapporto con lui, metterà alla prova quelle che sente più minacciose. In linea di massima. Ogni caso è comunque a sé.
Per aiutare nel modo migliore possibile il paziente di cui ci stiamo occupando, dobbiamo, pertanto, cercare di comprendere durante le prime sedute il suo “piano” e costruire una formulazione che contenga gli obiettivi che il paziente vuole raggiungere con la terapia, le credenze patogene e i sensi di colpa che lo ostacolano in questo, i traumi da cui tali credenze si sono originate, i possibili test che il paziente farà al terapeuta e gli insight che sarà utile lui raggiunga.
In questo processo il paziente sarà il nostro migliore alleato: durante le prime sedute cercherà di farci capire, consciamente e inconsciamente, come aiutarlo al meglio e, per tutto il corso della terapia, quando sbaglieremo, cercherà di riportarci sulla strada giusta. Non ci resta che ascoltarlo. Non ci resta che fidarci dei nostri pazienti!


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