L'introduzione
italiana alla “Control Mastery Theory” di Francesco Gazzillo
Quando mi è stato
chiesto di collaborare alla stesura di un capitolo, nel nuovo libro
di Francesco Gazzillo, che illustrasse i legami tra la Control
Mastery Theory e i principali modelli di psicoterapia, ho accettato
entusiasta e non solo per l'affetto e la stima che mi lega all'autore
di “Fidarsi dei pazienti”. Fin dagli inizi della mia formazione,
ho sempre ritenuto indispensabile che ogni scienza procedesse verso
un'integrazione delle sue conoscenze; un'integrazione che si
configurasse non come un appiattimento della pluralità del sapere in
una visione univoca, ma come la possibilità di osservare la
complessità del reale, di gettare lo sguardo su aspetti diversi dei
fenomeni e dell'esperienza: per conoscere davvero anche solo una
statua bisogna girarci intorno, sopra e sotto, bisogna saper assumere
prospettive diverse.
La verifica scientifica
delle ipotesi costruite a partire dall'osservazione e dall'esperienza
clinica ha sempre più consentito alla psicologia e alla psicoterapia
di giungere a un “sapere” e a un “saper fare” affidabili, di
svincolarsi dalle voci autorevoli che ne hanno fatto la storia e di
non doversi affidare unicamente alla pur necessaria acutezza e
sensibilità di clinici e teorici. Ha consentito, in altri termini,
di offrire all' <<utente psi>> dei servizi la cui
efficacia è stata ormai ampiamente dimostrata. Lontana dall'intento
di appiattire la dimensione umana e soggettiva fondante ogni
relazione, inclusa quella clinica, la ricerca in psicoterapia si sta
sempre più ponendo lo scopo di fornire criteri guida affidabili che
aiutino il clinico ad adattare la propria sensibilità, la propria
umanità, il proprio modello teorico e la gamma di approcci e
tecniche che ha a disposizione, ai bisogni dello specifico paziente
di cui vuole occuparsi: potremmo dire, la ricerca sta cercando di
aiutare lo psicoterapeuta a “Fidarsi dei pazienti”.
“Fidarsi dei pazienti”,
fin dalla sua introduzione, sottolinea l'importanza di prendere in
seria considerazione le poche, ma molto solide, risposte che la
ricerca in psicoterapia ci ha dato negli ultimi cinquant'anni
(Norcross, 2011; Wampold, Imel, 2015):
“1) tutti i tipi di
psicoterapia, indipendentemente dall’orientamento teorico a partire
dal quale vengono condotti, sono ugualmente efficaci (il famoso
verdetto di Dodo) se condotti in coerenza con un modello a cui
terapeuta e paziente prestano fede;
2) le psicoterapie
elaborate per affrontare i problemi specifici, e adattate alle
caratteristiche peculiari di un paziente sono più efficaci di quelle
“generiche” - “patient tailored” è meglio che
“one-size-fits-all”;
3) la qualità della
relazione interpersonale reale che lega clinico e paziente, la
condivisione degli obiettivi della cura, l’accordo sui compiti
reciproci (alleanza terapeutica; Lingiardi, 2002) e la presenza di
aspettative positive sono molto importanti per l’efficacia di un
trattamento, così come lo sono l’autenticità del terapeuta, la
sua empatia, il fatto che accetti il paziente, lo sostenga nel
raggiungimento dei suoi obiettivi e che riesca a modularne le
emozioni.
4) alcune caratteristiche
meramente umane del clinico, come la sua capacità di modulare le
emozioni dei pazienti, di costruire relazioni diverse con persone
diverse, di mettere in dubbio ciò che fa se non aiuta il paziente e
di vedere la realtà con gli occhi dell’altro sono molto più
importanti delle tecniche adottate nel favorire il buon esito di un
trattamento.” (Gazzillo, 2016, pag. XXX )
La sostanziale
equivalenza dei diversi tipi di terapia porta a chiederci “cosa
realmente aiuta i pazienti”, ad abbandonare i dogmi di una data
“scuola” di appartenenza per cercare di comprendere al meglio la
persona che abbiamo di fronte e di aiutarla nel modo migliore
possibile, liberi di utilizzare l'intera gamma di conoscenze,
approcci e tecniche che abbiamo a disposizione, al di là della
matrice teorica che le prevede, per adattarla alle esigenze di ogni
specifico paziente in ogni specifico momento.
L'individuazione di
aspetti meramente relazionali come fattori maggiormente predittivi di
un buon esito del trattamento, inoltre, suggerisce la necessità di
fornirci, nel nostro lavoro, di una “mappa relazionale”
affidabile che ci consenta di regolare la nostra relazione con il
paziente, e quindi i nostri interventi ma anche la nostra
soggettività, in modo che possa essere mutativa. E ciò vale per
pazienti di ogni fascia evolutiva (bambini, adolescenti, adulti) e
per ogni tipo di setting (individuale, gruppale, familiare, di
coppia, counselling e terapie brevi).
La
Control Mastery Theory
La Control Mastery Theory
(Weiss et al., 1986; Weiss, 1993; Gazzillo, 2016) può, in tal senso,
divenire un valido alleato. Oltre a essere una teoria della
psicopatologia e della psicoterapia di stampo psicoanalitico – ma
per molti aspetti lontana anni luce dai concetti fondamentali della
psicoanalisi classica –, la rigorosità con cui ha messo alla prova
e confermato empiricamente le sue ipotesi centrali, i molti punti di
contatto con i principali modelli teorici e psicoterapeutici
contemporanei (cognitivismo clinico, teoria dell'attaccamento, infant
research, psicologia evolutiva, psicoterapia umanistica, ect.) e
l'attenzione “scientifica” che ha rivolto al processo terapeutico
e all'analisi delle reazioni del paziente agli interventi del
terapeuta, la rendono un metamodello integrabile con qualsiasi
approccio e una valida cornice che permette di sistematizzare
agevolmente i dati clinici e di orientare e calibrare
consapevolmente, in maniera caso-specifica, gli interventi
terapeutici.
Adattamento e sicurezza
Adattamento
Lo scopo principale della
mente e del cervello è favorire l'adattamento quanto più ottimale
possibile dell'individuo al suo ambiente (McGuire et al., 1992;
Wakefield, 1997): questa è la premessa fondamentale della Control
Mastery Theory.
Sopravvivere e
riprodursi: gli imperativi a cui il “gene egoista” (Dawkins,
1976) assoggetta ogni essere vivente. Ogni organismo nasce
preprogrammato per adattarsi all'ambiente ed è costantemente guidato
da questa motivazione sovraordinata: tale assunto, lascito della
lezione darwiniana, fornisce la cornice concettuale imprescindibile
delle moderne Scienze Naturali ed è oggi condiviso dalla maggior
parte degli orientamenti psicologici (Cognitivismo, Teoria
dell'Attaccamento, Psicologia Evolutiva, Infant Research,
Psicoanalisi relazionale, ect.).
Tutti noi abbiamo bisogno
di un ambiente da cui attingere il necessario per sopravvivere e la
natura ci ha predisposti per permetterci di procurarcelo. Abbiamo
bocche per nutrirci e respirare, sistemi biologici complessi che
regolano la nostra fisiologia e ci consentono di mantenere un'omeostasi con l'ambiente, e tutta una serie di capacità e
motivazioni innate che ci spingono in questa direzione. Il cervello è
la cabina di regia che silenziosamente orchestra questa magia e il
funzionamento mentale è ciò che regola/controlla, consapevolmente e
inconsapevolmente, il nostro comportamento per permetterci di
padroneggiare al meglio l'ambiente e di trarre da esso tutto ciò di
cui abbiamo bisogno: “Control Mastery Theory” significa proprio
“teoria della padronanza e del controllo” e si fonda interamente
su questa concezione del funzionamento mentale.
“Al centro di questo
modello vi è la constatazione che le persone abbiano la capacità di
eseguire inconsciamente funzioni mentali “superiori”, di
controllare, in modo consapevole e inconsapevole, la propria vita
mentale conscia e inconscia, e che siano intrinsecamente motivate ad
adattarsi alla realtà, a padroneggiare le difficoltà, a superare le
loro inibizioni e i loro problemi, a elaborare i loro traumi e a
realizzarsi dal punto di vista personale e relazionale.” (Gazzillo,
2016, pag. 3)
Le ricerche svolte
nell'ambito dell'Infant Research hanno dimostrato come fin dalla
nascita ogni essere umano abbia la capacità, e sia fortemente
motivato, a organizzare coerentemente la propria esperienza
percettivo-affettiva, ad autoregolarsi, a padroneggiare gli eventi
(Emde, 1989) e a sintonizzarsi con il mondo intorno a lui (Stern,
1985). In altri termini, come sottolinea la Control Mastery Theory,
l'essere umano è precocemente motivato a crearsi una conoscenza
affidabile del mondo fisico e interpersonale e a riflettere su di
essa, ad agire sulla realtà per appagare i suoi bisogni e a
mantenere una relazione positiva e amorevole con le persone che si
prendono cura di lui e da cui, inevitabilmente nei primi anni di
vita, dipende la sua sopravvivenza.
Motivazioni, bisogni,
obiettivi
L'imperativo
dell'adattamento vige per tutto il corso dell'esistenza
dell'individuo e si articola in sistemi motivazionali che ne guidano
il comportamento. Lichtenberg (1989) e Lichtenberg, Lachmann e
Fosshage (2011) hanno individuato alcuni sistemi motivazionali
principali, “volti
a promuovere la realizzazione e la regolazione dei bisogni di base”,
sempre attivi, seppur in misura diversa, per tutto il corso della
vita: la regolazione psicologica delle richieste fisiologiche
dell'organismo, il bisogno di attaccamento e quello di affiliazione,
l'assertività e la motivazione a esplorare l'ambiente, il bisogno di
reagire con comportamenti di opposizione o evitamento a stimoli
avversivi, il piacere sensuale, l'eccitazione sessuale e la cura.
Gli obiettivi di ogni
essere umano si fondano su questi sistemi motivazionali e si
declinano in maniera personale, forgiati dagli interessi, dalle
esperienze e dalle attitudini personali.
La
Control Mastery Theory sottolinea come le persone vengano in terapia
per essere aiutate a raggiungere determinati obiettivi sani, normali
e desiderabili che non sono riusciti a perseguire o a mantenere nel
corso della loro vita e, a tale scopo, specie nelle fasi iniziali del
trattamento, cerchino di far capire al clinico, non sempre
esplicitamente, cosa vogliono raggiungere e come vogliono farlo.
L'individuazione degli obiettivi del paziente è dunque un primo
passo essenziale per portare avanti una terapia che possa rivelarsi
efficace.
L'attaccamento
La
Control Mastery Theory sottolinea come, ai fini dell'adattamento, per
il bambino sia estremamente importante poter fare riferimento a
figure adulte che si prendano cura di lui, che lo facciano sentire
amato e bene accolto, che lo proteggano dai pericoli e lo guidino
nella conoscenza del mondo e nell'apprendimento delle sue regole. Il
bambino ha bisogno di sentire di poter fare affidamento su caregiver
buoni, forti e amorevoli.
In linea con il pensiero
di Bowlby (1969), la Control Mastery Theory concepisce l'attaccamento
come una motivazione centrale nei primi anni di vita. Il bambino si
impegna attivamente, fin dai primi giorni di vita, a cercare la
vicinanza del caregiver, specialmente quando è affamato, spaventato
o in preda a uno stato di malessere, per assicurarsi protezione, cura
e conforto. Se la vicinanza e la disponibilità di una persona pronta
ad aiutarci in caso di difficoltà costituiscono la migliore polizza
assicurativa che possiamo avere in qualunque fase della nostra vita,
per un bambino piccolo rappresentano una questione di sopravvivenza
fondamentale: la prossimità di un adulto pronto a occuparsi di lui
gli consente di sentirsi al sicuro.
Considerazioni di
sicurezza
Qualsiasi condizione
aumenti la nostra possibilità di sopravvivenza ci fa sentire al
sicuro, qualsiasi condizione la diminuisca ci fa sentire in pericolo.
La valutazione della realtà in termini di sicurezza e pericolo è
fondamentale ai fini dell'adattamento e noi regoliamo sempre il
nostro comportamento in virtù di tali considerazioni: aspettiamo che
scatti il semaforo verde o che non sfreccino le auto prima di
attraversare la strada e aspettiamo un segnale d'intesa prima di
farci avanti con qualcuno che ci piace. Di più, siamo in grado di
valutare la sicurezza dell'ambiente che ci circonda, e di regolare di
conseguenza il nostro comportamento e l'accesso di contenuti mentali
alla consapevolezza in maniera completamente inconscia. Sono ormai
molte le evidenze empiriche che dimostrano come gli essere umani
siano in grado di effettuare valutazioni, anche complesse, e di
regolare il loro comportamento di conseguenza, senza esserne
consapevoli (vedi ad es. Gabbard, 2011).
Le origini della Control
Mastery Theory possono rintracciarsi in un brevissimo articolo di
Joseph Weiss pubblicato nel 1952: “Il pianto al lieto fine”.
Weiss si interroga sul particolare fenomeno per cui lo spettatore
immerso nella visione di un film d'amore non piange durante lo
scorrere della trama che vede i protagonisti litigare e separarsi per
un periodo di tempo, ma si lascia andare alle lacrime solo dopo aver
appurato la loro riconciliazione e il loro ricongiungimento: appunto,
piange solo al lieto fine. Perché? Perché piangere quando tutto va
bene e i protagonisti sono felici? Perché non prima? Weiss
suggerisce che le persone piangano al lieto fine, perché,
identificandosi con i protagonisti del film, solo in quel momento si
sentono sufficientemente al sicuro per permettersi di esperire quei
sentimenti spiacevoli che durante il dramma dell'intreccio avevano
vissuto come troppo pericolosi per poterli sperimentare. La
constatazione del “lieto fine” segnala che il pericolo è
passato, che le difese possono essere abbassate e le emozioni prima
represse vissute e padroneggiate.
Gazzillo (2016) riporta
alcuni esempi tratti dalla vita quotidiana in cui è possibile
scorgere il medesimo fenomeno. Sottrarsi a un incidente
automobilistico mediante un rapido movimento di sterzo che permette
di evitare un impatto frontale, porta il conducente dell'auto a
sentire il bisogno di fermarsi dopo aver proseguito per qualche
centinaio di metri. E' solo in quel momento che avverte il terrore e
i sintomi fisici a esso interrelati e si sofferma a parlare
dell'accaduto con gli altri viaggiatori: dopo aver constatato di
essersi messo in salvo insieme alle persone a lui care, si sente
sufficientemente al sicuro per permettersi di vivere il terrore che
nella fase critica sarebbe stato troppo pericoloso sperimentare (lo
avrebbe ostacolato nel mantenere la lucidità necessaria per compiere
la manovra di emergenza) e di potersi confrontare ed elaborare quello
che era accaduto e ciò che poteva accadere. Tutto ciò è avvenuto
al di fuori della sua consapevolezza: un meccanismo inconsapevole di
valutazione del pericolo e di regolazione del comportamento ha fatto
sì che uno specifico stato affettivo venisse prima inibito e poi
vissuto. Per quanto la realtà oggettiva ricopra un ruolo essenziale
in questo processo (come evidenziato dall'esempio sopra riportato),
in molte altre situazioni acquisiscono un ruolo egualmente o
addirittura più rilevante le nostre concezioni sulla realtà: ciò
che crediamo essere reale e il modo in cui noi crediamo che il mondo
e il nostro rapporto con esso debba essere.
Un uomo di cinquant'anni
pianse per la prima volta, dopo parecchi anni, in seguito alla morte
della sorella. Aveva perso il padre ancora adolescente. Era il figlio
più grande di una numerosa fratria. La madre era fragile e poco in
grado di fronteggiare le incombenze della vita e di occuparsi dei
figli: aveva sempre vissuto all'ombra del marito. Alla morte del
padre, Giorgio sentì la responsabilità della madre e dei fratelli,
si sentì in dovere di occuparsi di loro, di essere “forte”: non
versò una lacrima durante i funerali, preoccupato di lenire la
disperazione dei suoi familiari. Negli anni seguenti, pur riuscendo
ad affermarsi professionalmente e a formarsi una famiglia sua,
continuò a essere un punto di riferimento stabile per la sua
famiglia di origine: si prodigava costantemente per loro,
sacrificando il suo riposo e i suoi bisogni. Se l'indipendenza
raggiunta dai fratelli l'aveva in parte sollevato dal carico delle
responsabilità, la malattia psichiatrica in cui era incorsa la
sorella e il male che in seguito la portò alla morte costituirono
per lui una preoccupazione gravosa, una causa per la quale doveva
continuare a sacrificarsi. Quando la sorella morì, Giorgio si
sorprese a scoppiare in un pianto disperato: pensò al dolore che la
morte del padre gli aveva provocato, al senso di solitudine da cui
era presto fuggito, al timore, che originariamente non si era
permesso di provare, di non riuscire a occuparsi della sua famiglia e
di se stesso senza un padre alle spalle. La morte della sorella, che
aveva seguito di qualche anno quella della madre, lo aveva sollevato
da quelle che credeva fossero le sue responsabilità: non era più
tenuto a essere forte, non c'era più nessuna persona fragile di cui
doveva occuparsi, poteva finalmente sentirsi sufficientemente al
sicuro per esprimere la propria tristezza, presente e passata, e il
proprio antico dolore, tornando a occuparsi di sé.
La Control Mastery
Theory sottolinea che quando le persone si sentono al sicuro,
riescono a elaborare i propri traumi, a esprimere i propri affetti, a
superare i propri problemi, a raggiungere uno stato di benessere e a
perseguire i propri obiettivi. Come le ossa guariscono dopo una
frattura se il chirurgo ortopedico è in grado di predisporre le
condizioni ottimali affinché ciò possa avvenire, così la mente può
guarire dagli esiti di esperienze avverse se trova le condizioni
ottimali che glielo consentano (Bowlby, 1988). Pertanto, lo
scopo principale e sovraordinato di ogni psicoterapeuta Control
Mastery Theory è quello di fare sentire al sicuro i propri pazienti; e, come ogni frattura ha bisogno di un intervento specifico, ogni
“mente”, ogni “persona” ha bisogno di una psicoterapia
“caso-specifica”.
Credenze, credenze
patogene e sensi di colpa interpersonali
Come detto, l'essere
umano è fortemente motivato a formarsi una conoscenza affidabile del
mondo fisico e interpersonale, fin dai primi giorni di vita. Gli
studi nell'ambito dell'Infant Research ci hanno ormai fornito una
mole consistente di prove a sostegno delle precoci capacità del
bambino di cogliere contingenze tra gli eventi, e tra gli eventi e il
proprio comportamento, di memorizzare e di organizzare le
informazioni che riceve dal mondo esterno, creandosi delle
aspettative e reagendo in modo congruo a esse (Beebe, Lachmann,
2002). Precocemente il bambino si forma delle previsioni relative al
comportamento delle principali figure che si occupano di lui nelle
diverse situazioni e organizza le sue risposte emotive e
comportamentali di conseguenza. Gradualmente doterà il mondo di
significato, ne costruirà le leggi di funzionamento e imparerà a
interagire con esso. In questo processo, i genitori, autorità
assoluta per il bambino, hanno un ruolo fondamentale. Con il loro
esempio, i loro insegnamenti e i modi con cui si pongono in relazione
con lui, trasmettono al bambino tutta una gamma di conoscenze
relative al mondo e a se stesso: “Chi sono io? Come devo essere?
Come è il mondo? Come deve essere? Come funzionano le cose e i
rapporti, e come devono funzionare?”
“Queste conoscenze sono
state chiamate in molti modi diversi, rappresentazioni di sé e degli
oggetti, imago, schemi, costrutti, rappresentazioni di interazione
generalizzate, modelli operativi interni, aspettative ecc. Senza
trascurare le loro differenze, tutti questi concetti rimandano grosso
modo allo stesso ambito di senso, l’insieme delle rappresentazioni
su noi stessi, gli altri, i rapporti tra noi e gli altri e il mondo,
che fungono da guida per il nostro pensiero e il nostro
comportamento. Weiss e Sampson hanno scelto il termine di credenze
per descriverli, sussumendo sotto di esso le rappresentazioni
esplicite e quelle implicite, quelle verbali, quelle per immagini e
quelle procedurali. E sottolineano come la loro costruzione sia
funzione della motivazione adattiva” (Gazzillo, 2016, pp. 11-12).
Le “credenze” non
sono pensieri astratti e privi di affetti, ma “la rappresentazione
del mondo reale e delle regole morali che lo governano e vengono
costruite sulla base delle proprie esperienze e nel tentativo di
adattarsi alla realtà” (Gazzillo, 2016, pag. 18). Gli affetti
costituiscono la modalità preriflessiva e immediata,
analogico-qualitativa, con cui elaboriamo le informazioni provenienti
dalla realtà e, pertanto, contengono in nuce delle credenze.
L'insieme delle credenze che ciascuno di noi sviluppa nel corso della
vita costituisce la “mappa” con cui diamo significato al mondo e
ci muoviamo in esso: è alla base della nostra personalità, della
nostra “psicologia”.
Le Credenze Patogene
La Control Mastery Theory
sottolinea come la psicopatologia derivi da credenze “negative”,
dal carattere perentorio e scarsamente adattive, che si sviluppano in
seguito a esperienze traumatiche reali, soprattutto durante
l'infanzia e l'adolescenza, principalmente vissute con genitori e
fratelli. Acquisiscono un carattere di traumaticità non solo quelle
esperienze singole e inattese che fanno sentire l'individuo, o una
persona a lui cara, gravemente in pericolo (traumi da shock),
ma anche, e soprattutto, un'ampia gamma di situazioni ripetitive
(traumi da stress), generalmente corrispondenti al protrarsi
di rapporti disfunzionali: in entrambi i tipi di esperienze, la
persona si sente sopraffatta da sentimenti negativi e/o vive il
perseguimento di un obiettivo sano e normale come causa di una
situazione di pericolo, sia interno (un sentimento spiacevole) sia
esterno (qualcosa di negativo che accade al soggetto o a una persona
per lui rilevante). Le credenze negative che originano da questo tipo
di esperienze vengono definite “patogene” proprio perché legano
bisogni, desideri, obiettivi sani e normali (dai più astratti ai
più concreti) a un pericolo – che riguarda la persona o un suo
caro – interferiscono con il benessere dell'individuo, ne
ostacolano la realizzazione personale e relazionale, e sono fonte di
psicopatologia. Possono essere espresse nella forma “Se...
allora...”: “Se chiedo sostegno, graverò sugli altri e verrò
rifiutato”, “Se sono autonomo, le persone a me care ne
soffriranno”, “Se mi occupo di me stesso, invece di mettermi da
parte e occuparmi delle persone a cui tengo, le ferirò...”, “Se
esprimo me stesso, verrò criticato: sono inadeguato”, ect.
Un individuo può avere
una qualche consapevolezza delle sue “credenze patogene” (anche
se le reputa “dati di fatto” piuttosto che “visioni distorte
della realtà”), ma in genere esse sono inconsce, o perché
procedurali o perché rimosse in virtù della loro “pericolosità”.
Le “credenze patogene”
possono essere tante quanto possono essere diverse le esperienze da
cui esse sono state dedotte e quanti possono essere i modi in cui
l'individuo ha vissuto una data esperienza traumatica. In maniera
analoga a quanto la Main (1985) evidenziava relativamente ai Modelli
Operativi Interni, esse non si limitano a essere una
“interiorizzazione passiva” delle esperienze reali, ma una loro
“ricostruzione attiva”, con finalità difensive (adattamento a
situazioni traumatiche), influenzata dalle distorsioni cognitive
tipiche dello psichismo infantile (si ricordi che la maggior parte
delle credenze patogene si sviluppano in conseguenza di esperienze
vissute durante l'infanzia e l'adolescenza) e, più in generale, dai
limiti caratteristici della modalità analogico-qualitativa,
caratteristica degli affetti, di elaborazione delle informazioni (le
esperienze traumatiche hanno un impatto significativo sulla sfera
emotiva).
Le credenze patogene,
pertanto, si strutturano a partire dal pensiero illogico,
pre-mentalistico e magico – caratterizzato da processi di
attribuzione causale scorretta e ipergeneralizzazione –
proprio del funzionamento psichico infantile. L'essere umano
ha la tendenza, fondamentalmente adattiva, a generalizzare le
conoscenze derivate dall'esperienza personale, e durante l'infanzia questa tendenza è acuita dal fatto che la povertà di esperienze pregresse
non consente di relativizzare e contestualizzare un dato evento,
specialmente se emotivamente gravoso. Inoltre, la difficoltà che i
bambini hanno ad assumere prospettive diverse dalla propria, il loro
sostanziale “egocentrismo”, li porta a controbilanciare il loro
scarso potere con un'onnipotenza immaginaria. Ancora, le motivazioni
prosociali e altruistiche (che l'evoluzione ha selezionato per il
loro valore altamente adattivo) sono attive fin dalla più tenera età
e portano il bambino a essere sensibile alla sofferenza delle persone
a lui vicine e a sentirsi irrazionalmente responsabile delle loro
sofferenze.
Infine, c'è un aspetto
di primaria importanza che ci permette di gettare luce, oltre che sul
carattere irrazionale tipico delle credenze patogene, sulla
difficoltà che le persone hanno ad affrancarsene: ogni bambino
dipende interamente dai suoi genitori, che sono per lui delle
autorità assolute; ha la necessità di vederli come forti, giusti e
buoni e di sentirsi al sicuro in rapporto con loro, e fa di tutto per
riuscirci. Ogni bambino impara a conoscere la realtà così come i
genitori gliela dipingono e cerca di capire cosa, implicitamente o
esplicitamente, mamma e papà si aspettano da lui. Gli esempi dei genitori e i loro insegnamenti indicano al bambino non solo com'è la realtà, ma anche come “deve essere”, l'imperativo morale a cui deve assoggettarsi: il loro comportamento è quello giusto, il modo in cui lo trattano è il modo in cui egli merita di essere trattato. Necessitando
di stare bene con loro, in caso di conflitto o disaccordo il bambino
finisce per pensare di essere dalla parte del torto e se crede di
aver causato loro sofferenze o dispiaceri, si sente profondamente in
colpa e cerca di farli stare meglio.
Ogni credenza, non solo
quelle patogene, tende a rimanere stabile nel tempo: è soggetta a
processi di generalizzazione, a bias cognitivi di conferma, e
necessita, per essere modificata, di ripetute e forti prove che la
disconfermino. La plasticità cerebrale, ad ogni modo, assicura una
certa dose di flessibilità: ci dà la possibilità, per tutta la
vita, di farci tangere dall'esperienza e di modificare il nostro
sistema di credenze. Tuttavia, una “credenza patogena” è molto
più difficile da modificare. L'individuo, infatti, teme di
allontanarsi dai “diktat” che le sue “credenze patogene” gli
impongono, a causa dei pericoli che esse paventano, e che egli
ritiene reali. Inoltre, esse guidano e plasmano i comportamenti
individuali: pertanto, tali comportamenti tenderanno a suscitare
negli altri risposte che saranno lette come una conferma delle
credenze patogene su cui essi si basano.
I sensi di colpa
interpersonali
Un ulteriore ostacolo,
infine, è costituito dai potenti sensi di colpa inconsci che
derivano da, e sostengono, le credenze patogene delle persone.
Infatti, ogni “credenza patogena segnala l’esistenza di un
conflitto tra il desiderio, innato e sostenuto da relazioni
sufficientemente buone, di perseguire obiettivi sani e realistici, e
il desiderio di conservare una relazione sicura con caregiver
traumatici cristallizzato nella fede che si presta alle proprie
credenze patogene.” (Gazzillo, 2016, pag. 24). Weiss (1993)
sottolinea come “i bambini possono sentirsi in colpa per qualsiasi
sentimento, atteggiamento o comportamento, anche il più sano, se
hanno l’impressione o gli viene detto che esso suscita dolore o
disapprovazione nei genitori o mette a repentaglio il rapporto con
loro.” Ogni credenza patogena ha costituito il tentativo di
mantenere una relazione sicura con i propri genitori (motivazione
sovraordinata dell'individuo durante l'infanzia), a spese del proprio
benessere e dei propri bisogni. Abbandonarle vuol dire anche
allontanarsi da quella relazione ed elicita pressanti sensi di
colpa che, a causa del loro carattere inconscio, esitano in
manifestazioni disfunzionali e autosabotaggi.
La Control Mastery Theory
identifica quattro principali sensi di colpa interpersonali: da odio
di sé, da separazione/slealtà, da responsabilità onnipotente e del
sopravvissuto.
Essi originano dalle
motivazioni prosociali e altruistiche tipiche dell'essere umano e
sono normalmente presenti in ciascuno di noi. Tuttavia, in presenza
di esperienze, traumatiche, che portano alla formazione di credenze
patogene, questi sensi di colpa acquisiscono un'intensità maggiore e
sfociano in esiti patologici.
L'Odio
di Sé
Come detto, in caso di
disaccordo con i genitori, o se questi lo trascurano, lo maltrattano
o abusano di lui, il bambino, per salvaguardare l'immagine amorevole
dei suoi genitori, tenderà a credere di avere torto, di meritare il
trattamento ricevuto e finirà per sentirsi indegno, cattivo, ect., a
comportarsi in maniera congrua a questa autoassunzione sacrificale
e/o ad aspettarsi di essere maltrattato allo stesso modo e/o di
essere considerato negativamente. Osserva Fairbairn (1943, pp. 93):
“E’ meglio essere peccatore in un mondo guidato da Dio che vivere
in un mondo governato dal diavolo. Un peccatore in un mondo governato
da Dio può essere cattivo; ma c’è sempre un certo senso di
sicurezza che deriva dal fatto che il mondo all’intorno è buono
(“Dio è nei Cieli – Tutto va bene nel mondo!”); e in ogni caso
c’è sempre una speranza di redenzione. In un mondo governato dal
diavolo l’individuo può sfuggire alla malvagità d’essere un
peccatore; ma egli è cattivo perché il mondo che lo circonda è
cattivo. Inoltre non può avere alcun senso di sicurezza né speranza
di redenzione. L’unica prospettiva è quella della morte e della
distruzione.” Bambini maltrattati, di età prescolare, che erano
stati sottratti per questo ai genitori e affidati a un orfanotrofio,
furono intervistati in seno a una ricerca (Beres, 1958) e le risposte
che gli intervistatori ottennero furono sconvolgenti: tutti credevano
di essere stati abbandonati dai genitori per qualcosa di cattivo che
avevano fatto e nessuno di loro voleva essere affidato a una madre
diversa dalla propria.
Il senso di colpa da
separazione/slealtà
Il senso di colpa da
separazione si sviluppa a partire dalla credenza che separarsi
(fisicamente o idealmente) dalle persone care significhi farle
soffrire, arrecar loro un danno, tradirle (Modell 1965, 1971; Asch,
1976; Weiss et al., 1986).
Il senso di colpa da
responsabilità onnipotente
Il senso di colpa da
responsabilità onnipotente (Asch, 1976; Weiss et al., 1986) deriva
dalla convinzione di avere il dovere e di essere in potere di
prendersi cura delle persone care in difficoltà, di essere
responsabile dei loro malesseri. Una persona che soffre di questo senso di colpa ha difficoltà a separarsi o a occuparsi di se stessa nella misura in cui sente che ciò la porterebbe a venire meno ai suoi “doveri”, cosa che la farebbe sentire “cattiva” o “colpevole”.
Il senso di colpa del
sopravvissuto
Il senso di colpa del
sopravvissuto deriva “dalla consapevolezza di avere qualcosa più
di qualcun altro. [..] E' invariabilmente accompagnato dal pensiero,
che può rimanere inconscio, che quello che si è ottenuto, è stato
ottenuto a spese di qualcun altro a cui è stato sottratto”
(Modell, 1971, p. 339). Questo senso di colpa si basa sull'assunto
per cui la felicità e il benessere siano disponibili in quantità
limitata, per cui la fetta di “felicità” di cui ci si nutre, la
si è sottratta ai propri cari.
Adattarsi alle
credenze patogene
Ciascun individuo può
utilizzare diverse strategie, non mutualmente escludentesi, per
adattarsi alle proprie credenze patogene. Esse non sono altro che
strategie di coping, seppur disfunzionali (ma non di per sé!), con
cui l'individuo cerca di far fronte alla sofferenza causata dai
propri schemi patogeni. La Control Mastery Theory classifica queste
strategie di coping in tre macro-categorie:
a) la compiacenza
(compliance) rispetto agli esempi e agli insegnamenti dei genitori:
l'individuo si assoggetta completamente ai suoi schemi patogeni,
comportandosi e/o vivendosi in maniera conforme ai loro dettami o
evitando le situazioni temute;
b) la ribellione contro
l’esempio e gli insegnamenti dei genitori, a cui si associano
profonde angosce di perdita, sensi di colpa e autopunizione:
l'individuo si oppone esplicitamente ai dettami delle proprie
credenze patogene, ma lo fa in una maniera autosabotante (che spesso
lo porta a trovare una conferma dei propri timori) o sviluppa
sintomi psicopatologici;
c) l’identificazione
con i genitori: l'individuo fa proprio il comportamento
traumatizzante dei genitori per acquisire un senso di padronanza.
La sofferenza, i
problemi e la psicopatologia degli individui sono, pertanto,
espressione dei modi con cui essi si sono adattati alle proprie
credenze patogene. La gravità delle loro problematiche è funzione
di una serie di variabili: il numero, l'intensità e la perduranza
delle esperienze traumatiche vissute, la presenza e la rilevanza di
esperienze positive (con figure di riferimento amorevoli, ad
esempio), le caratteristiche personali (fattori temperamentali,
sensibilità, intelligenza, ect). Come l'aumento di
temperatura corporea, quando abbiamo la febbre, ha la funzione di
ridurre la proliferazione dei microrganismi patogeni da un lato, e
di incrementare l'attività delle cellule con funzione immunitaria dall'altro, così la psicopatologia risulta essere il miglior
adattamento a cui un individuo riesce a giungere in determinate
circostanze e con le risorse che ha a disposizione (Sandler, Joffe,
1969), il modo con cui cerca disperatamente di mantenere una
sensazione di sicurezza, seppur a spese del proprio benessere, e, al
contempo, un segnale che lo porta a cercare una soluzione, che lo
spinge a mettersi alla ricerca di una strada in cui non sia la
forclusione della sua felicità a garantirgli la sicurezza. Infatti,
gli individui sono fortemente motivati, sia consciamente sia
inconsciamente, a raggiungere i propri obiettivi e a superare le
credenze patogene di cui soffrono e che li ostacolano; e si adoperano
a tale scopo. Vedremo come! Ma prima...
Cosa andiamo a
cercare
La Control Mastery Theory
sottolinea come le persone giungano in terapia allo scopo di essere
aiutate a elaborare i propri traumi e a superare le credenze patogene
(e i sensi di colpa associati) che ne sono derivate e che ostacolano
il raggiungimento dei propri obiettivi sani e desiderabili. Si
adoperano a tale scopo, sia consciamente sia inconsciamente,
collaborando attivamente con il clinico e cercando di fornirgli,
specialmente nelle prime sedute, tutte le informazioni che possano
aiutarlo ad aiutarli.
Ma cosa “andiamo a
cercare”, noi terapeuti, mentre ascoltiamo una persona che si è
rivolta a noi? Ci interessiamo alle varie aree e ai vari aspetti
della sua vita, prestiamo attenzione al racconto dei suoi problemi
personali e relazionali, alle sue risorse, accogliamo le narrazioni
relative al suo passato, ai suoi traumi, al suo presente, al suo
futuro, ai suoi desideri, ai suoi vissuti, alle sue paure. Osserviamo
come si rapporta con noi, come reagisce ai nostri interventi e ai
nostri comportamenti, cerchiamo di capire cosa lo fa sentire a suo
agio e cosa a disagio, osserviamo le emozioni che ci suscita. E,
durante quest'immersione in cui cerchiamo di vedere il mondo dalla
sua prospettiva, ci sforziamo di cogliere gli obiettivi che vuole
raggiungere e le credenze patogene da cui è ostacolato. In altri
termini, cerchiamo di individuare gli schemi problematici che
ricorrono nella sua narrazione e nel rapporto con noi: i modi in cui
il paziente si aspetta, consciamente o meno, che gli altri reagiscano
ai suoi comportamenti e ai suoi desideri, le rappresentazioni di sé
e i vissuti che discendono da queste aspettative, e le sue personali
modalità di risposta (anche anticipatorie) alle reazioni temute o
effettive dell'altro. Cerchiamo i “temi relazionali conflittuali
centrali” (CCRT) del paziente, costituiti, ciascuno, dalla
successione di “tre elementi centrali: il desiderio del paziente
(W, wish), la risposta reale o presunta dell'altro con cui il
paziente è in relazione (RO) e infine la risposta soggettiva o del
Sé (RS)” (Luborsky, Luborsky, 2000, pp. 57-58).
Una storiella, tratta da
“Istruzioni per rendersi infelici” (1983) di Watzlawick,
permetterà di chiarirci meglio alcuni dei concetti che abbiamo
trattato e altri che tratteremo in seguito.
“Un uomo deve
appendere un quadro: ha un chiodo, ma non il martello. Il vicino ne
ha uno, così
decide di andare da
lui e di farselo prestare. A questo punto gli sorge un dubbio: E se
il mio vicino
non me lo vuole
prestare? Già ieri mi ha salutato appena. Forse aveva fretta, ma
forse la fretta era
soltanto un pretesto
ed egli ce l'ha con me. E perché? Io non gli ho fatto nulla, è lui
che si è messo in testa qualcosa. Se qualcuno mi chiedesse un
utensile, io glielo darei subito. E perché lui no? Come si può
rifiutare al prossimo un così semplice piacere? Gente così rovina
l'esistenza agli altri.
E per giunta
s'immagina che io abbia bisogno di lui solo perché possiede un
martello. Adesso basta! E così si precipita di là, suona, il vicino
apre, e, prima ancora che questo abbia il tempo di dirgli
“buongiorno”, gli grida: "Si tenga pure il suo martello,
villano!"”
Chiaro che si tratta di
un esempio estremo (l'uomo in questione è verosimilmente un
paranoico grave); ma gli esempi estremi ci permettono di osservare e
comprendere meglio i fenomeni che vogliamo studiare. Qual è la
credenza patogena che possiamo dedurre abbia spinto l'uomo a pensare,
a sentire e a comportarsi in questo modo? Qual è il suo desiderio?
Necessita di qualcosa che non ha, ha bisogno di aiuto, di sostegno:
questo è il suo desiderio, questo è il suo obiettivo. Qual è la
risposta che si aspetta dall'altro? Cosa associa al suo desiderio?
Rifiuto, ostilità. La credenza patogena che, dunque, possiamo
verosimilmente inferire è la seguente: “Se chiedo aiuto, verrò
rifiutato e trattato con ostilità”. Non conosciamo altri episodi
in cui l'uomo si è comportato in modo analogo – se fosse stato
nostro paziente, avremmo potuto ascoltarne altri e/o avremmo potuto
chiedergli se gli fossero capitati altri episodi simili – e,
dunque, non possiamo ad esempio essere certi che la sua credenza
patogena si riferisca a qualsiasi situazione in cui l'uomo si senta
bisognoso di aiuto, o riguardi solamente alcuni tipi di situazione
(ad esempio, con figure maschili). Supponiamo, però, di aver
ascoltato altri episodi analoghi e di poter stabilire con abbastanza
certezza che una delle credenze patogene centrali del paziente è:
“Se chiedo aiuto, verrò rifiutato e trattato con ostilità”. Da
quali traumi si è originata questa credenza patogena? Per quello che
ne sappiamo da questa vignetta, la risposta è “boh!”. Se l'uomo fosse stato un nostro paziente, avremmo potuto chiedergli cosa lo schema patogeno in questione gli facesse venire in mente; avremmo potuto rispondere a questa domanda dopo aver ascoltato i racconti del suo passato; avremmo potuto chiedergli del suo rapporto con i genitori o altre figure significative, se non ce ne avesse parlato liberamente. A ragione,
comunque, possiamo ipotizzare che l'uomo abbia sviluppato questa
credenza patogena a causa di ripetute situazioni in cui si è trovato
a chiedere aiuto ed è stato rifiutato e trattato con ostilità.
Altre considerazioni.
L'uomo ha letto la “fretta” del vicino con la lente fornitagli
dalla sua credenza patogena: ecco il “bias cognitivo di conferma”
a cui prima accennavamo. Quella “fretta” potrebbe veramente
significare tante cose e, con molta probabilità, era stata
determinata da motivazioni personali del vicino; ma per l'uomo, c'è
una sola “realtà” (per quanto inizialmente egli stesso abbia
colto “l'oggettività della fretta”). Ancora. Cosa rispondereste
voi a un vicino che, dal nulla, bussa alla vostra porta e vi tratta
inspiegabilmente in questo modo? La maggior parte delle persone
avrebbe una reazione compresa tra l'incredulità, la paura, la
derisione e la rabbia. Rimarrebbe immobile e basita, chiuderebbe
spaventata la porta, riderebbe della stramberia del vicino, lo
manderebbe al quel paese o lo aggredirebbe verbalmente (o
fisicamente) nella misura in cui egli non dovesse desistere dalle sue
ingiuste e aggressive recriminazioni. In tutti questi casi, l'uomo
penserebbe: “Vedi? Avevo ragione! Ce l'ha con me! Non mi vuole
aiutare!” Scambierebbe l'effetto con la causa: ecco come il
comportamento suscitato negli altri giunge a divenire una prova della
validità delle proprie credenze patogene.
Le credenze patogene non
sono delle semplici ipotesi: rappresentano la realtà per la persona
che ne soffre. L'altro rifiuta di darmi aiuto e mi tratta
ingiustamente con ostilità e io, “giustamente”, mi arrabbio.
Papà rifiuta di darmi aiuto e mi tratta ingiustamente con ostilità
e io, giustamente (senza virgolette), mi arrabbio. Arrabbiarsi
implica il riconoscimento delle mancanze altrui nei nostri confronti,
la ribellione all'idea di meritare rifiuto e ostilità – in questo
caso – , il sentirsi degni di qualcosa di meglio. L'aggressività è
una strategia di coping adattiva: uno dei modi con cui possiamo
reagire alle situazioni in cui ci sentiamo in pericolo. Pertanto, in
questo caso, come nella maggior parte dei casi, il problema non sta
nel “coping”, nel modo in cui ci adattiamo a una determinata
credenza patogena, ma nella “credenza patogena”, nelle
aspettative false e irrazionali che, oltre a condizionare il nostro
comportamento e le nostra visione della realtà, ci fanno soffrire.
Da clinici, è di questo che dobbiamo occuparci: il contributo del
paziente ai cicli interpersonali disfunzionali può, eventualmente –
sempre che il paziente non viva ciò come una critica – divenire
oggetto d'attenzione solo dopo che – se dell'uomo di Watzlawick ci
stessimo occupando – il paziente è giunto a sentire chiaramente
che noi valorizziamo il suo diritto di chiedere aiuto, ci sente dalla
sua parte, ha chiaro che noi NON crediamo meriti rifiuto e ostilità
e può constatarlo osservando il nostro atteggiamento nei suoi
confronti; se facciamo ciò, tuttavia, potrebbe anche non essere
necessario: se ci si arriva a sentire in diritto di chiedere aiuto e
ci si aspetta di venire accolti quando si chiede aiuto, un
comportamento come quello tenuto dall'uomo della storiella non lo si
terrebbe.
Ma stiamo anticipando
un'altra questione, con la quale potremmo rispondere a una domanda
che probabilmente molti di voi si sono fatti: “ma se quest'uomo si
aspetta di ricevere rifiuto e ostilità chiedendo aiuto, perché lo
fa?”
Test e processo
terapeutico
Ognuno di noi valuta
costantemente l'ambiente che lo circonda e organizza il suo
comportamento in virtù dei suoi desideri e dell'esito delle sue
valutazioni. Se, ad esempio, ho voglia di bere una birra fresca, apro
il frigo e controllo che ne sia rimasta una. Se la trovo, la bevo;
altrimenti scendo in strada e vado ad acquistarla al bar sotto casa.
Come prima cosa, metto alla prova la credenza: “mi è rimasta una
birra in frigo”. Se malauguratamente la mia credenza viene
disconfermata dai fatti, ne metto alla prova un'altra: “c'è un bar
sotto casa mia”; e, ancora, un'altra: “il bar sotto casa mia è
aperto a quest'ora”. “E speriamo bene...”
Il modo principale con
cui esploriamo il nostro ambiente, compreso quello interpersonale, è
mettendo alla prova le nostre credenze. Il processo di “messa alla
prova” può essere cosciente quanto inconscio e tiene conto non
solo dei processi cognitivi, ma anche, e soprattutto, delle reazioni
affettive. Quando conosciamo una persona, ad esempio, per valutare se
possiamo trovarci bene con lei, cerchiamo di capire con chi abbiamo a
che fare e che tipo di rapporto possiamo aspettarci, la mettiamo alla
prova e dalle risposte che riceviamo traiamo le nostre conclusioni,
et voilà: nel giro di poco tempo, decidiamo se quella persona può
piacerci o meno, se ci sta simpatica o meno, e come possiamo
rapportarci con lei. Solo parte di questo processo di valutazione è
consapevole: spesso può capitarci che una persona ci stia simpatica
o meno “a pelle”, senza sapere il perché.
Nei rapporti
interpersonali, mettiamo soprattutto alla prova le nostre “credenze
patogene”. Per quanto, per i motivi illustrati in precedenza, le
persone trovino molto difficile affrancarsi dalle loro credenze
patogene, per via della sofferenza che provocano sono al contempo
estremamente motivate a metterle alla prova per cercare di attestarne
la falsità. E ciò avviene talvolta consapevolmente, ma soprattutto
inconsciamente, nella vita di ogni giorno, come in psicoterapia.
Per la Control Mastery
Theory, “il processo terapeutico è il processo attraverso il quale
il paziente, con l'aiuto del terapeuta, lavora per disconfermare le
sue credenze patogene” (Weiss, 1993, p. 30). A tal fine, il
paziente farà dei “test” al terapeuta: metterà inconsciamente
alla prova con lui le sue credenze patogene, sperando di ricevere una
risposta che gli mostri che il terapeuta non le condivide, le reputa
false e che lo legittimi ad abbandonarle e a perseguire i suoi
obiettivi sani e desiderabili. Come dimostrato da numerose ricerche
empiriche (Weiss et al., 1986; Weiss, 1993), quando il terapeuta
supera un test del paziente, quest'ultimo diventa più rilassato,
meno angosciato, più sicuro di sé e più capace di insight; si
avvicina ai suoi obiettivi e, successivamente, può testare con
ancora più forza le sue credenze patogene. Al contrario, se il
terapeuta fallisce un test, il paziente diventa più teso e
angosciato, più insicuro e inibito, e meno capace di insight, si
allontana dai suoi obiettivi e diventa meno audace nel mettere alla
prova le sue credenze patogene con il clinico.
L'obiettivo sovraordinato
del terapeuta è fare sentire al sicuro il paziente, e per farlo
sentire al sicuro deve, mediante i suoi interventi e le sue risposte,
superare i test che il paziente gli fa e disconfermare le sue
credenze patogene. Una terapia di successo giunge alla sua
conclusione quando il paziente, avendo ricevuto un numero che ritiene
sufficiente di disconferme delle sue credenze patogene, si sente
libero di abbandonarle, raggiunge i suoi obiettivi e smette di
testare il terapeuta.
Ma in che modo un
paziente può testarci? In infinito modi: mediante richieste,
comportamenti, atteggiamenti, raccontandoci fatti della sua vita,
presenti o passati, parlando di sé o di altri in un certo modo, ect.
E in ogni occasione, osserverà con attenzione la nostra reazione, il
modo in cui noi interveniamo, verificando se contrasta o meno la
credenza patogena che sta mettendo alla prova in quel momento.
Riprendiamo per un attimo
“l'omino di Watzlawick” e la domanda: “ma se quest'uomo si
aspetta di ricevere rifiuto e ostilità chiedendo aiuto, perché lo
fa?” Risposta: perché mette alla prova la credenza patogena di
meritare rifiuto e ostilità se chiede aiuto. “Ma perché lo fa in
maniera così controproducente?”
Ogni credenza patogena è
il risultato di un tentativo di adattamento a situazioni traumatiche.
Paventando un determinato pericolo, in origine ha permesso
all'individuo di evitare o limitare le ritraumatizzazioni a cui era
esposto nel suo ambiente di sviluppo traumatico. Avendo subito un
processo di generalizzazione, tuttavia, essa è divenuta la “realtà
dell'individuo”: un modo costante di leggere le situazioni in cui
la persona desidera o ha bisogno di soddisfare quell'obiettivo che la
credenza patogena considera “pericoloso”. Le persone, pertanto,
sono estremamente spaventate all'idea di ignorare o sfidare le
ingiunzioni prescritte dalle credenze patogene, che, ricordiamolo,
sono ricoperte della stessa “aurea autoritaria” di cui
l'individuo da bambino aveva ricoperto i suoi genitori. Le persone,
tuttavia, sono al contempo molto motivate a superare le proprie
credenze patogene, ad attestarne la falsità, in quanto fonti di
inibizioni e di profonda sofferenza. Per farlo, però, hanno bisogno
di sentirsi al sicuro. Ogni paziente valuta, consciamente e
inconsciamente, il grado in cui, nella relazione con il clinico, può
sentirsi al sicuro nel mettere alla prova le sue credenze patogene.
E' estremamente attento rispetto alle reazioni del terapeuta, per
cercare di capire se questi condivide i dettami delle sue credenze
disfunzionali o li disapprova. Lo mette alla prova senza abbandonare
completamente le sue credenze, per non sentirsi eccessivamente in
pericolo. Inoltre, essendo sorte come tentativo di mantenere un
rapporto positivo con i genitori, sfidare le proprie credenze
patogene porta l'individuo a sentire di recidere quell'antico legame
e ciò, come detto, gli elicita forti sensi di colpa inconsci che
sfociano in manifestazioni disfunzionali e autosabotaggi, con cui
inconsciamente cerca di espiare, punendosi, “la propria colpa”.
L'uomo descritto da
Watzlawick era estremamente convinto che il vicino gli fosse ostile e
che non gli volesse accordare il suo aiuto e, pertanto, si era recato
da lui con la corazza che gli avrebbe consentito di difendersi nel
caso in cui la sua credenza patogena avesse trovato un riscontro
nella realtà. Non poteva abbandonare questa corazza e si sarebbe
sentito in colpa nel farlo: se si fosse sentito meritevole di aiuto,
di un trattamento solerte, avrebbe implicitamente dimostrato
l'inadeguatezza del comportamento che i suoi genitori (ipotizziamo)
avevano tenuto nei suoi confronti (senso di colpa da Odio di Sé).
Inoltre, dato che le credenze patogene originano da esperienze
disfunzionali ripetute e/o estremamente gravose, il valore di verità
che il soggetto attribuisce loro, lo spinge a cercare prove contrarie
ugualmente forti nel suo tentativo di disconfermarle: se penso di
essere rifiutato e trattato con ostilità se chiedo aiuto, mi
comporto in modo da aumentare la possibilità che ciò accada e se,
come spero, vengo invece accolto e aiutato, posso sentirmi
rassicurato circa la falsità della mia credenza, e posso pertanto
sentirmi al sicuro nell'abbandonarla. Chiaro che quanto più sono
stati gravi e persistenti le esperienze traumatiche vissute, tanto
più “estreme” saranno le manifestazioni comportamentali che
l'individuo metterà in atto al fine di disconfermare le credenze che
da esse ha dedotto.
La Control Mastery Theory
evidenzia tre macro-modalità con cui una persona può mettere alla
prova le proprie credenze patogene, tre tipi di test:
a) i test di transfert
per compiacenza, in cui il paziente si comporta in obbedienza ai
dettami prescritti dalle proprie credenze patogene, sperando che il
terapeuta gli faccia capire che non è necessario. Ad esempio, un
paziente che vuole mettere alla prova in questo modo la credenza
patogena “se chiedo aiuto, verrò rifiutato”, potrà minimizzare
i suoi problemi, dire che può occuparsi di sé da solo, dire di
poter fare a meno della terapia, ect., sperando inconsciamente che il
terapeuta si opponga a queste sue modalità, valorizzi il suo diritto
di essere aiutato e si occupi attivamente di lui.
b) i test di transfert
per ribellione, in cui il paziente si comporta in maniera opposta a
quanto prescritto dalle proprie credenze patogene, sperando che il
terapeuta gli faccia capire che ne ha tutto il diritto, proteggendolo
da eventuali autosabotaggi. In questi casi, in virtù dei propri
sensi di colpa inconsci, il paziente può ribellarsi in maniera
“eccessiva”, può sviluppare dei sintomi o comportarsi in modo
tale da suscitare negli altri risposte che confermano la sua credenza
patogena. La credenza patogena “se chiedo aiuto, verrò rifiutato”
potrà essere così messa alla prova con il terapeuta mediante la
richiesta di sedute aggiuntive o con frequenti telefonate tra una
seduta e l'altra: la risposta del terapeuta dovrà essere
valorizzante nei confronti del suo bisogno di chiedere aiuto e dovrà
accogliere, nei limiti del possibile, le sue richieste.
c) i test di
capovolgimento da passivo in attivo, in cui il paziente si identifica
con il genitore traumatico, trattando gli altri nello stesso modo
traumatizzante in cui è stato trattato. Con questo tipo di test egli
spera inconsciamente di imparare dalla persona che “attacca” un
modo diverso di fronteggiare la situazione traumatica subita in
passato. Se in terapia un paziente ci fa test di questo tipo,
dobbiamo cercare di mantenerci calmi e sereni e di non giustificarci
(senza interpretare la sua identificazione immediatamente: il
paziente con molta probabilità la percepirebbe come una
giustificazione, un segno del fatto che con il suo comportamento ci
ha feriti); se, invece, ci racconta situazioni in cui ha trattato
così altre persone della sua vita, dobbiamo difendere queste ultime.
I pazienti possono
mettere alla prova una stessa credenza patogena con ognuno dei tipi
di test sopra-delineati e possono utilizzare comportamenti anche
molto diversi tra loro; possono testare con diversi comportamenti,
anche opposti, una stessa credenza patogena, possono testare con uno
stesso comportamento credenze patogene diverse in momenti diversi
della terapia, o addirittura della stessa seduta, e, specialmente nei
casi più gravi, possono testare contemporaneamente più credenze
patogene con uno stesso comportamento. Il terapeuta deve essere in
grado di cogliere il tipo di test e riconoscere la credenza patogena
che il paziente sta testando con lui in uno specifico momento. Per
fare questo, è necessario che sia giunto a una esauriente
comprensione del funzionamento del paziente, che abbia compiuto una
formulazione, come vedremo insieme, quanto più accurata possibile
del suo “piano inconscio”.
Con i test, i pazienti
non fanno altro che mostrarci gli esiti disadattivi delle relazioni
traumatiche che hanno vissuto e ci chiedono di fornirgli una
“esperienza emozionale correttiva”, strettamente caso-specifica,
che dobbiamo cercare di dargli.
Come? Come possiamo
superare i test dei pazienti?
Riprendiamo la storiella
di Watzlawick. L'uomo sta mettendo alla prova la sua credenza
patogena di meritare ostilità e rifiuto se chiede aiuto. Bussa al
vicino, ma anziché chiedergli una mano, “chiedergli il martello”,
inveisce contro di lui accusandolo implicitamente di non volerlo
aiutare. Se ciò fosse capitato in terapia? Se si fosse scagliato
allo stesso modo contro il terapeuta accusandolo di non volergli
accordare una seduta in più? Come il terapeuta avrebbe potuto
rispondere per superare il test del paziente? Non c'è un solo modo:
esistono diversi modi con cui è possibile superare i test dei
pazienti e diversi modi con cui invece si rischia di fallirli. Nella
scelta del “modo”, bisogna anche tenere in considerazione come il
paziente potrebbe leggere la nostra reazione. Un richiamo alla calma,
un ritiro spaventato, potrebbero divenire, per un paziente che sta
testando la credenza patogena “se chiedo aiuto, verrò rifiutato e
trattato con ostilità”, indicazione di rifiuto, al di là della
reale intenzione del suo interlocutore. E questo varrebbe per
qualsiasi intervento, anche “tecnicamente corretto”
(un'interpretazione di un certo tipo, se per esempio ci muoviamo con
un approccio psicodinamico; ma lo stesso discorso è applicabile a
qualunque tipo di modello di psicoterapia), che il paziente arrivi a
leggere come “rifiuto” o “ostilità”, in questo caso. E ogni
paziente, “anche a parità di credenza patogena”, legge la realtà
in maniera personale: pertanto, il nostro approccio deve sempre
essere strettamente “caso-specifico”, sia in considerazione degli
obiettivi e delle credenze patogene del paziente, sia in
considerazione del suo modo di recepire i nostri interventi e il
nostro atteggiamento. E ricordiamoci che per il paziente non esiste
la “neutralità del terapeuta”: egli vive sempre le risposte del
clinico come favorevoli, contrarie, o al più indifferenti, alle sue
credenze patogene; ma necessita, per stare meglio, di avvertire il
terapeuta sempre e comunque dalla sua parte (ciò non necessariamente
implica che dobbiamo essere compiacenti rispetto a tutte le sue
richieste “consce”, che non di rado possono essere riflesso delle
sue credenze patogene).
Come potremmo rispondere
dunque all'ipotetico uomo di Waztlawick? L'atteggiamento opportuno
dev'essere opposto a quello tenuto dal genitore con cui ha vissuto
l'esperienza traumatica da cui ha inferito la credenza patogena che
sta testando con noi: accogliente e cordiale. Ecco alcuni esempi
possibili di risposta: “Mi dica... se desidera una seduta in più
se ne può senz'altro parlare... se posso, mi fa piacere venirLe
incontro...”; “In questo momento sente un forte bisogno di essere
sostenuto... ma teme che anch'io, come ha fatto suo padre in molte
occasioni, possa rifiutarLa e trattarLa con ostilità... ma io penso
che Lei abbia tutto il diritto di chiedere aiuto e di riceverlo...”;
“Lei è arrabbiato con me perché crede che non voglia accordarLe
una seduta in più... crede che non mi curi del suo bisogno di essere
sostenuto... e se fosse così avrebbe ragione a essere
arrabbiato...”; ect.
Attenzione! Con un
comportamento pressoché identico, lo stesso paziente potrebbe
mettere alla prova la stessa credenza patogena con un test da passivo
in attivo: ad esempio, se gli chiedessimo di spostare una seduta per
delle nostre esigenze, potrebbe accusarci per questo, trattarci con
ostilità e maltrattarci. In questo caso, il tipo di risposta da dare
sarebbe completamente diverso. Dovremmo rimanere sereni e porre dei
limiti se necessario: in questo modo il paziente potrà apprendere da
noi un modello di risposta più funzionale di quello da lui adottato
in passato, procedendo così verso l'elaborazione e il
padroneggiamento del suo trauma.
A proposito
d'interpretazione
Per superare i test dei
pazienti, non è necessario nessun tipo di intervento particolare: è
importante il messaggio relazionale che si veicola, l'esperienza
correttiva che si fornisce al paziente, al di là dei modi e delle
tecniche. Altresì, il paziente diverrà automaticamente più capace
di insight dopo un test superato. Non è l'interpretazione del
terapeuta a favorire l'insight del paziente, ma l'aumento del grado
di sicurezza a cui porta il superamento di un test: ci sono dati di
ricerca a supporto di questo assunto; di una ricerca svolta sui
trascritti di un'analisi classica, tra l'altro (Weiss, 1993).
Ad ogni modo, aiutare il
paziente a comprendere da quali esperienze siano derivate le sue
credenze patogene, sottolineare il valore adattivo che esse avevano
avuto e lo scopo (mantenere una relazione amorevole con i propri
caregiver traumatici) che si erano prefisso, ed evidenziarne la
ricorsività in situazioni diverse, lo aiuta a generalizzare i
progressi compiuti in terapia e ad acquisire un maggior senso di
padronanza. Non sempre tuttavia: con pazienti che vivono le
interpretazioni come critiche, è bene evitarle (almeno fino a quando
essi continuano a viverle così).
Compiti e
incoraggiamenti
I compiti a casa e gli
“incoraggiamenti a fare” possono essere ugualmente molto utili
se, in linea con gli obiettivi del paziente, rappresentano una
disconferma delle sue credenze patogene.
Il piano del
paziente
Riassumendo, ogni
paziente giunge in terapia a causa di problemi derivati da credenze
patogene che lo ostacolano nel perseguimento degli obiettivi sani (e
non sempre consapevoli) che vuole raggiungere. Queste credenze sono
state inferite da esperienze traumatiche reali (da shock e/o da
stress) occorse principalmente nel corso dell'infanzia e
dell'adolescenza. Per quanto sia estremamente spaventato all'idea, il
paziente desidera ardentemente superare i suoi problemi e raggiungere
i suoi obiettivi: cerca di farlo mettendo alla prova le sue credenze
patogene, mediante test che rivolge al clinico e con il quale spera
inconsciamente di ricevere una risposta che disconfermi i suoi
timori.
La Control Mastery Theory
sottolinea come il paziente possegga un “piano inconscio” di
massima con cui portare avanti questo lavoro. Testerà le sue
credenze patogene in modi e con un ordine che dipenderà da quanto
si sente sicuro, durante le varie fasi della terapia, nella relazione
con il clinico: testerà prima le credenze patogene che lo spaventano
di meno e con i modi (tipi di test) che lui considera meno pericolosi
e gradualmente, man mano che il terapeuta supera le sue credenze
patogene e gli permette così di acquisire maggior sicurezza nel
rapporto con lui, metterà alla prova quelle che sente più
minacciose. In linea di massima. Ogni caso è comunque a sé.
Per aiutare nel modo
migliore possibile il paziente di cui ci stiamo occupando, dobbiamo,
pertanto, cercare di comprendere durante le prime sedute il suo “piano”
e costruire una formulazione che contenga gli obiettivi che il
paziente vuole raggiungere con la terapia, le credenze patogene e i
sensi di colpa che lo ostacolano in questo, i traumi da cui tali
credenze si sono originate, i possibili test che il paziente farà al
terapeuta e gli insight che sarà utile lui raggiunga.
In questo processo il
paziente sarà il nostro migliore alleato: durante le prime sedute
cercherà di farci capire, consciamente e inconsciamente, come
aiutarlo al meglio e, per tutto il corso della terapia, quando
sbaglieremo, cercherà di riportarci sulla strada giusta. Non ci
resta che ascoltarlo. Non ci resta che fidarci dei nostri pazienti!
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