mercoledì 14 febbraio 2018

I COMPITI DELL'ADOLESCENTE



L'adolescenza

Da molto tempo ormai il termine “adolescenza” fa parte dell'immaginario collettivo, indicando inequivocabilmente quell'età della vita che fa da ponte tra l'infanzia e l'età adulta.
Tuttavia, fino al diciottesimo secolo l'adolescenza è stata spesso confusa con l'infanzia, non delineando di fatto una fase specifica della vita. Il passaggio dall'infanzia all'adultità, infatti, avveniva in maniera rapida, e l'evento puberale costituiva lo snodo di un percorso evolutivo dai contorni decisamente sfumati, specie per le classi sociali medio-basse: basti pensare al precocissimo ingresso nel mondo del lavoro dei bambini di famiglie contadine e artigiane.
La cultura ottocentesca, dal Sigifrido di Wagner in poi, cominciò gradualmente a delineare con più chiarezza l'età adolescenziale, sottolineandone gli aspetti più prettamente legati allo sviluppo puberale, in un misto di purezza, forza fisica, spontaneità e vitalità (Ariès, 1960). Ed è proprio sui mutamenti biologici che fanno seguito all'evento puberale che si fondarono i primi studi sull'adolescenza (Hall, 1904), identificata come fase della vita specifica connotata da cambiamenti fisici e psicologici peculiari, nei confronti della quale l'interesse scientifico crebbe esponenzialmente dopo la seconda guerra mondiale (Debesse, 1970).
Sebbene da questa breve parabola storica si evinca abbastanza facilmente il peso dell'influenza di variabili culturali nella determinazione del “fenomeno adolescenza”, le concettualizzazioni degli autori psicoanalitici (Freud S., 1905; Freud A., 1936; Blos, 1962; Meltzer, 1979), sulla linea degli studi di Hall (1904), ne sottolinearono la determinazione biologica e/o psichica, negando la rilevanza dei fattori storico-culturali.
Al contrario, nello stesso periodo l'antropologia culturale mise in evidenza il forte impatto che la società e la cultura hanno nel delineare la fenomenologia dell'adolescenza: non esiste un solo tipo di adolescente, ma tanti quante sono le società e le cornici culturali in cui essi vivono. La ricerca etnografica portata avanti da Margaret Mead (1928) attraverso il metodo dell'osservazione partecipante evidenziò che, per i giovani di Samoa, l'adolescenza era un periodo sostanzialmente sereno e privo del carattere turbolento frequentemente riscontrato negli adolescenti americani dell'epoca. L’autrice, confrontando il popolo di Samoa con la società statunitense – in particolare su temi attinenti la religione, la moralità e la sessualità – ipotizzò che i conflitti e le inquietudini adolescenziali derivassero dall'eccessiva dipendenza tra genitori e figli e dall’organizzazione restrittiva e autoritaria della società e della famiglia americane (ibidem).
L'aporia natura-cultura non può essere superata nella misura in cui la focalizzazione su alcune caratteristiche dei fenomeni umani porti a negare, o a trascurare, altri aspetti rilevanti della realtà che si vuole studiare. Concepire l'adolescenza come un fenomeno determinato culturalmente o viceversa come un evento universale strettamente legato alla pubertà, non rende giustizia alla complessità dell'essere umano e alla mole di ricerche che hanno sottolineato l'influenza reciproca e continua fra l'individuo e il suo ambiente relazionale e sociale (Lewin, 1935; Bronfenbrenner, 1992; Cicchetti, Cohen 1995). Lo sviluppo individuale, infatti, può essere concettualizzato come frutto delle continue transazioni tra la persona e gli aspetti prossimali e distali del suo ambiente di sviluppo (Sameroff, Chandler, 1975).
Inoltre, la non sovrapponibilità dell'adolescenza con l’universale fenomeno della pubertà, che indubbiamente la influenza, rende ancor più difficile una sua univoca interpretazione (Brusset, 1985). Tanto più che lo stesso evento fisiologico puberale può presentarsi in età differenti, con una variazione che può essere anche considerevolmente ampia se vengono poste a confronto culture molto diverse tra loro; Callari-Galli e collaboratori (1989) osservarono ad esempio che nelle ragazze Bundi della Nuova Guinea il menarca compare mediamente a 18 anni, 5 anni più tardi rispetto alle ragazze europee.
Nonostante la mole di linee interpretative anche molto diverse tra loro, una lettura critica dei diversi approcci teorici, che ne tenga in considerazione la cornice epistemologica e li ponga a confronto con i riscontri delle ricerche empiriche, offre la possibilità di identificare alcune caratteristiche peculiari dell'adolescenza, e di osservarne gli aspetti critici e processuali, come gli aspetti di continuità e discontinuità evolutiva, che i vari autori hanno di volta in volta rilevato. Ciò permette di individuare alcuni compiti evolutivi caratteristici di questa fase della vita, che trovano un riscontro nelle teorie della motivazione più attuali (Liotti et al., 2017; Lichtenberg,1989).
In ambito psicoanalitico, Lichtenberg (ibidem) ha delineato 5 sistemi motivazionali organizzati attorno a bisogni di base presenti fin dalla nascita, ciascuno dei quali, in un ordine gerarchico mutevole, assume un peso differente in base ai diversi momenti e alle diverse fasi della vita: la regolazione psicologica delle richieste fisiologiche dell'organismo; la ricerca di un legame di attaccamento e di legami affiliativi; l'esplorazione e l'assertività; il bisogno di reagire avversativamente mediante opposizione o evitamento; il piacere sensuale e l'eccitazione sessuale.


I miti sull'adolescenza

Da Hall in poi, la visione dell'adolescenza come normale fase “turbolenta” della vita ha preso piede sia nelle concettualizzazioni degli autori psicoanalitici che se ne sono occupati (vedi ad es. Freud, 1957, 1966; Erikson, 1963, 1968; Kestemberg, 1962, 1980), sia nell'immaginario collettivo, nonostante diverse ricerche abbiano rilevato che solo una parte degli adolescenti vive questa particolare fase della vita come una “crisi” (Rutter et al.,1976; Offer, 1987; Offer, Sabshin, 1990; Powers et al., 1989). Il fatto che gli psicoanalisti abbiano basato le loro osservazioni in gran parte sugli adolescenti con difficoltà psichiche che avevano occasione di osservare in seno alla loro attività clinica potrebbe essere uno dei motivi principali di tale distorsione (Offer, Schonert-Reichl, 1992). Lo scarso dialogo con la ricerca e una certa dose di autoreferenzialità potrebbero d'altro canto aver portato alla persistenza di alcuni miti, per cui ancora l'adolescenza continua a essere concepita come una fase “normalmente burrascosa”. Offer e Schonert-Reichl (ibidem) ne mettono in evidenza cinque: il primo mito vuole che lo sviluppo in adolescenza sia normalmente tumultuoso, il secondo che questa fase della vita sia caratterizzata da un incremento di emotività, il terzo vede la pubertà come un evento negativo per l'adolescente, il quarto identifica l'adolescenza come la fase della vita in cui il rischio suicidario è maggiore, il quinto ritiene di tipo infantile il pensiero dell'adolescente.
Le ricerche hanno dimostrato che la maggior parte degli adolescenti ha un equilibrio adeguato, una positiva immagine di sé, relazioni positive con i genitori e il gruppo dei pari, e non è necessariamente in antagonismo con le figure adulte di riferimento (Offer, Offer, 1975; Rutter et al., 1976; Offer et al., 1991): normalmente quindi lo sviluppo dell'adolescente non è tumultuoso.
Inoltre, i tassi di suicidio in adolescenza rilevati dagli studi epidemiologici non sono stabili: presentano delle oscillazioni che sembrano più rapportabili a fattori demografici e sociali (Offer, Schonert-Reichl, 1992).
D'altro canto, il periodo principale di insorgenza di molti disturbi psichici è proprio l'adolescenza (Paus et al. 2008): pur avendola sottratta all'alone di “patologia” a cui a lungo era stata assoggettata, la ricerca ha parimenti sottolineato la significativa vulnerabilità che scaturisce dai profondi cambiamenti fisici, psichici e sociali a cui l'individuo va incontro in questa fase della vita.




Corpo, sessualità e trasformazione

Il più rapido sviluppo generale dell'organismo, il raggiungimento della maturità riproduttiva e lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari che la pubertà comporta segnano il passaggio dall'infanzia alla prima adolescenza (Blos, 1962; Miller, 1963). In questa fase, tra gli 11 e i 14 anni, l'individuo si confronta con cambiamenti corporei molto rapidi che necessitano di essere elaborati a livello psichico, in un processo affatto semplice che si protrarrà anche nelle fasi successive dell'adolescenza. È proprio la pubertà il punto di partenza degli studi psicoanalitici sull'adolescenza (Freud, 1905).

Freud

Per Freud (ibidem), la pubertà identifica il momento in cui lo sviluppo sessuale individuale raggiunge la sua maturazione definitiva.
La mente, come concettualizzata da Freud (1895, 1900, 1915), è un “apparato idraulico”, un sistema che “preme alla scarica” e che ha come scopo sovraordinato quello di mantenersi quanto più possibile esente da stimoli, di raggiungere il piacere – rifuggendo dallo spiacevole accumulo di tensioni – attraverso la scarica pulsionale (Freud, 1911). In questa concezione, l'ambiente ha un ruolo marginale e l'intera organizzazione psichica dipende dall'equilibrio delle pulsioni: sono le pulsioni a motivare il comportamento. Esse costituiscono i rappresentanti psichici degli stimoli corporei che pervengono alla psiche (Freud, 1915). Originano dalle modificazioni fisiologiche che, portando a un aumento quantitativo dell'eccitazione, provocano stimolazioni che a livello mentale vengono rappresentate come moti di desiderio che premono per il loro soddisfacimento, pulsioni in cerca di vie di scarica. Ad esempio, la secchezza delle fauci (spiacevole) produce una tensione interna che elicita comportamenti volti alla ricerca di acqua per dissetarsi (piacere) e ripristinare l'equilibrio (idro-elettrolitico) basale.
Per Freud (1905, 1905), le pulsioni “sessuali” o “libidiche” sono gli organizzatori principali della vita psichica individuale. La “sessualità” freudiana identifica una particolare qualità di piacere, una peculiare qualità di eccitazione (erogena) che differisce da quella somatica e che è presente fin dalla nascita. Il bambino freudiano (1905) è un "perverso polimorfo": ricerca il piacere “sessuale” senza alcuna finalità riproduttiva, attraverso zone erogene (mete) che, acquisendo il primato in diverse epoche dell'ontogenesi individuale, segnano le fasi dello sviluppo psicosessuale: orale (0 – 18 mesi), anale (18 mesi – 3 anni), fallica (3 – 6 anni), latenza (6 anni – pubertà).
L'ultima tappa dello sviluppo psicosessuale (genitale), che coincide appunto con la pubertà, vede le diverse zone erogene assoggettarsi al primato della zona genitale: in un individuo sano, la sessualità trova la sua organizzazione matura e acquisisce una finalità procreativa prima assente; il ritrovamento di oggetti esterni per raggiungere il soddisfacimento assume un'importanza di gran lunga superiore all'appagamento autoerotico, e, in un superamento definitivo del “complesso edipico”, sorge una ricerca di nuovi oggetti sessuali al di fuori dalla famiglia. È evidente come l'approccio freudiano riduca il significato dell’adolescenza al raggiungimento della sessualità adulta centrata sulla genitalità, e fondi le sue concettualizzazioni sulla “teoria della libido” che poco tiene conto dei profondi mutamenti che interessano l'età adolescenziale e di cui autori successivi si sono occupati.

Anna Freud

Per Anna Freud (1936, 1957, 1958, 1966), l'adolescenza è un “disturbo evolutivo”. Sviluppando le concettualizzazioni del padre, Anna Freud ha sottolineato come in adolescenza si ricapitoli lo sviluppo psicosessuale infantile: le fantasie, le credenze e le interiorizzazioni a esso legate si riorganizzano in un nuovo assetto psichico che deve in primo luogo fronteggiare l'incremento della libido caratteristico della pubertà e le conseguenze che ne derivano. Lo sviluppo psichico procede su un duplice binario: il passato psichico dell'infanzia continua a dominare l'inconscio dell'adolescente e dell'adulto, ma la progressione da una fase sessuale all'altra richiede una riorganizzazione sostanziale dell'assetto psichico dell'individuo.
L'adolescente è impegnato in una lotta emotiva, nello sforzo di controllare la forza emergente delle sue pulsioni genitali e di tenere a bada la regressioni verso le pulsioni pregenitali (A. Freud, 1936, 1957). La ricapitolazione dello sviluppo psichico infantile, infatti, porta l'adolescente a confrontarsi nuovamente con il complesso edipico – che viene vissuto come più minaccioso a causa dell'incremento delle tensioni sessuali che ora investono prioritariamente l'area genitale, rendendo più probabile l'eventualità dell'incesto –, il cui superamento richiede il ritiro della libido dagli oggetti infantili (con l'inevitabile lutto da elaborare) e il rivolgimento della stessa verso nuovi oggetti. Tutto ciò comporta un tumulto inevitabile: l'Io e il Super-Io sono costretti a mettere in discussione il loro equilibrio passato per far fronte alle pressioni del “corpo ribelle” (A. Freud, 1936). La loro organizzazione deve alterarsi abbastanza da accogliere le nuove mature forme di sessualità; in caso contrario, un Io rigido o immaturo potrebbe inibire o farsi sovrastare dagli impulsi dell'Es, o venire da essi deformato (A. Freud, 1957). In questa prospettiva, l'instabilità e la disorganizzazione è comunque la norma, e l'adolescenza è soggetta a un turmoil inevitabile che interrompe una crescita pacifica e che può condurre, in base al nuovo equilibrio che la psiche riesce a raggiungere, a una salute mentale soddisfacente o alla psicopatologia (A. Freud, 1966).
Secondo questa prospettiva, l'intervento psicoanalitico ha limitate possibilità perché, a causa della lotta emozionale in cui l'adolescente è impegnato, la quota di libido che può essere trasferita sull'analista è fortemente ridotta (A. Freud, 1957).

I coniugi Laufer

La linea di pensiero di Anna Freud viene portata avanti dal contributo di Moses ed Eglé Laufer (1984), che la sviluppano sottolineando come le trasformazioni puberali incidano sulla rappresentazione di sé. Le rapide trasformazioni corporee che accompagnano la definitiva maturazione sessuale richiedono una profonda elaborazione a livello mentale che ha lo scopo primario di padroneggiare l'eccitazione e la dimensione somatica che, in un misto di attrazione e paura, l'adolescente sente sfuggire al suo controllo: la masturbazione è un procedimento atto a tale scopo. I genitali maturi e i caratteri sessuali secondari devono essere integrati in una nuova rappresentazione del corpo, così come le fantasie, i desideri sessuali e le identificazioni edipiche necessitano di essere integrati in una nuova matura organizzazione che si ponga come formazione di compromesso tra ciò che si desidera e ciò che è lecito, all'interno di un’identità sessuale divenuta irreversibile.
Le fantasie infantili di fusione con il corpo della madre e l'idea di trovare nella madre l'appagamento dei propri bisogni libici con la pubertà devono essere progressivamente abbandonate, al fine di consentire il definitivo superamento del complesso edipico. La masturbazione che durante l'infanzia aveva lo scopo di ripristinare in fantasia la rassicurante unità idealizzata madre-bambino, in adolescenza può aumentare l'angoscia e la paura della passività: la “fantasia masturbatoria centrale” – che oltre le spinte pulsionali pre-genitali dirette verso il corpo della madre, comprende le principali identificazioni sessuali e la definizione del nucleo dell'immagine corporea – deve essere integrata nel contesto della genitalità. Ciò comporta l'urgenza di vivere tale fantasia nel contesto delle relazioni oggettuali extra-familiari e nelle proprie esperienze sessuali. Infatti, l'incremento delle spinte pulsionali rende molto più difficoltosa la gestione della fantasie a esse legate a livello intrapsichico: da qui la forte tendenza dell'adolescente a esteriorizzare i conflitti.
Per procedere regolarmente verso l'età adulta, l'adolescente deve integrare le proprie fantasie masturbatorie e le trasformazioni del proprio corpo in un'immagine integrata di sé. Questo processo può essere ostacolato se i soddisfacimenti regressivi riattivati dalle fantasie masturbatorie non vengono subordinati e integrati all'interno dell'organizzazione sessuale definitiva. Alcuni episodi psicotici transitori possono rappresentare in adolescenza la soluzione estrema che l'Io mette in atto per integrare la fantasia masturbatoria centrale nel contesto della genitalità. Il rifiuto inconscio della maturazione sessuale può portare a un “break-down” evolutivo, che i Laufer (1984) pongono come base eziologica dei disturbi psicopatologici che insorgono nella prima età adulta.
L'arresto di questo processo di integrazione può portare l'adolescente a sviluppare una visione distorta, carica di odio e di vergogna, del proprio corpo e del rapporto con esso. In alternativa, può formarsi uno «pseudoideale dell’Io» (Laufer, Laufer, 1984): un conformismo adattivo di superficie nel quale, tuttavia, i legami con gli oggetti edipici vengono lasciati intatti. Può anche capitare che l'adolescente vulnerabile cerchi di usare come ideale dell'io un oggetto fantasticato che, in un anelito ascetico, controlla il corpo sessualmente maturo. I Laufer considerano più gravi i break-down evolutivi che si verificano durante la pubertà. Break-down evolutivi che si verificano nella tarda adolescenza hanno maggiore probabilità di essere mitigati da un’organizzazione difensiva che consente all’adolescente di trovare risposte alternative ai desideri incestuosi che, in caso contrario, verrebbero proiettati all'esterno, compromettendo l'esame di realtà e dando luogo ad agiti autolesionistici, condotte tossicomaniche o improvvisi esordi psicopatologici: disperati tentativi di integrare in qualche modo il corpo sessuato maturo nell’immagine di sé.
Nella prospettiva dei Laufer, un intervento psicoanalitico è possibile se adattato alle caratteristiche di questa età, in una forma intensiva di trattamento mirato a favorire i processi d'integrazione rimasti bloccati.

La prospettiva evolutiva

Pur assumendo un peso specifico diverso all'interno delle diverse concettualizzazioni teoriche che sono state formulate sulla psicologia dell'adolescenza, la pubertà, i cambiamenti a essa associati e la dimensione sessuale, hanno costituito uno dei principali trait d'union tra le diverse modellizzazioni dello sviluppo adolescenziale. I cambiamenti fisici e la maturazione sessuale sono considerati in maniera unanime una delle caratteristiche centrali dell'adolescenza. Tutti gli autori che si sono occupati di adolescenza, seppur partendo da prospettive teoriche diverse e mettendo in luce aspetti anche molto eterogenei tra loro, sottolineano il lavoro che l'adolescente si trova a dover compiere per elaborare mentalmente i profondi cambiamenti da cui è interessato.
Durante la prima adolescenza, la maggior concentrazione verso il proprio corpo e le proprie sensazioni è a servizio di uno dei primi compiti evolutivi che il giovane deve assolvere. Esso consiste nell'integrare le trasformazioni fisiche e sessuali puberali in modelli rappresentazionali nuovi che portano a una sostanziale modifica della percezione di sé e degli altri (Brooks-Gunn, Petersen & Eichorn, 1985; Paikoff & Brooks-Gunn, 1991). Le modifiche che l'adolescente apporta al proprio corpo e alla propria immagine (scelta di un certo tipo di vestiario, piercing, tatuaggi, allenamento fisico, ecc.) costituiscono dei modi con cui egli cerca di scoprire e padroneggiare il proprio corpo, ricercare l'accettazione e la desiderabilità dei pari e comunicare agli adulti la propria autonomia e/o la propria sofferenza (Charmet, Macazzan, 2000). L’aumento di testosterone e adrenalina, secondo alcuni autori (Kenrick, Griskevicius, 2013), porta l'adolescente a mettersi in mostra e ad assumere comportamenti rischiosi, al fine di destare l'attrazione dei membri del sesso opposto.
Se le impostazioni teoriche più moderne continuano a dare molta importanza alla componente sessuale nello sviluppo dell'adolescente, allo stesso tempo sottolineano l'importanza di non trascurare altri sistemi motivazionali fondamentali che in quest'epoca della vita necessitano di essere riorganizzati in virtù delle nuove esigenze psicofisiche e delle richieste dell'ambiente. In questo contesto, la motivazione sensuale-sessuale (Lichtenberg, 1989) può sovrastare altre motivazioni o essere da esse facilmente incorporata. I cambiamenti ormonali spingono l'adolescente a cercare sempre di più la compagnia di un pari – dell'altro sesso, per l'adolescente eterosessuale – nei confronti dei quali generalmente si attivano i sistemi motivazionali di attaccamento e di accudimento, oltre che quello sessuale (Ainsworth, 1991).

Gli strumenti per esplorare

Anna Freud

Anna Freud (1936, 1957) ha sottolineato come, a fianco ai turbamenti che riteneva tipici dell'età adolescenziale, questa età della vita fosse interessata dall'acquisizione di più complesse capacità logico-formali. Tuttavia, nella concettualizzazione dell'autrice la dimensione del pensiero assume il compito prioritario di fronteggiare l'incremento di tensione innescato dai cambiamenti puberali, tenendo a bada gli impulsi e distanziandosi dai legami oggettuali infantili: l'intellettualizzazione diviene una delle forme di difesa caratteristiche di questa fase della vita, in cui emozioni e pulsioni vengono controllate al livello del pensiero; da ciò può derivare l'iperinvestimento in attività intellettuali, la propensione a interessarsi a questioni filosofiche o esistenziali, o l'adesione acritica a ideologie estreme.


Meltzer

Negli sviluppi psicoanalitici kleiniani e post-kleiniani le dinamiche inerenti la sessualità perdono la loro centralità a favore di un conflitto (“epistemofilico”) centrato sulla “conoscenza”. È la fame di conoscenza che, sorretta dallo sviluppo cognitivo che interessa questa fase evolutiva, porta l'adolescente a riorganizzare in maniera considerevole il suo mondo psichico e conseguentemente le sue relazioni con l'ambiente circostante. In linea con le concettualizzazioni kleiniane, Meltzer (1979) ritiene che l'adolescente si opponga agli adulti per accedere a quella conoscenza che ritiene essi vogliano mantenergli nascosta, il grande segreto “di fare i bambini” che fino all'età di latenza era stato considerata a completo appannaggio dei genitori, considerati onnipotenti e onniscienti. Il crollo dell'onniscienza e dell'onnipotenza genitoriale, speculare al crollo dell'onnipotenza e della conoscenza magica infantili, fa emergere un profondo stato di incertezza e confusione che dà vita a una profonda crisi d'identità. La confusione tra gli opposti (ad es. buono/cattivo, adulto/bambino, maschile/femminile), sommersa fino ad allora dall'onnipotenza infantile e dalla convinzione dell'onniscienza genitoriale, emerge con l'avvento della pubertà (Meltzer, 1973). La sessualità, in questo modello, è solo uno dei modi con cui l'adolescente può cercare di fronteggiare lo stress derivato da questo nuovo emergente stato di confusione.
L'identità familiare viene persa e con essa anche la propria identità va in crisi. L'adolescente si ritrova di fronte a un bivio inconscio nei confronti del quale è chiamato a fare una scelta (Meltzer, 1979): se i miei genitori non sono onnipotenti e onniscienti come pensavo, mi sono generato da solo o i miei genitori sono da qualche altra parte (ad es. Dio, una squadra di calcio)?
Questa domanda tradisce una difficoltà ad abbandonare l'onnipotenza infantile, l'idea che sotto questo cielo non possa esistere nulla di non conosciuto: la negazione dell'ignoto che fa paura. I tentativi di risolvere questa dinamica di fondo sono situati tra due estremi che portano il giovane a identificarsi con la comunità degli adolescenti o a considerarsi un individuo isolato, speciale e unico. Al contempo, l'adolescente è spinto a ricercare la propria strada nel mondo degli adulti, fatto di indipendenza e di potere, ma non è immune al fascino nostalgico del proprio passato infantile in cui, almeno in fantasia, poteva fregiarsi della protezione di adulti che sapevano tutto e potevano fare tutto.
Meltzer ritiene che l'adolescente oscilli continuamente tra questi quattro posizioni (comunità degli adolescenti, comunità dei bambini/della famiglia, comunità degli adulti, adolescente isolato) nel tentativo di superare la confusione e la disillusione, e di trovare la propria identità. È proprio questa fluttuazione continua tra le diverse comunità, che configurano specifici, isolati, eterogenei e mutevoli stati della mente, a complicare il lavoro psicoanalitico con gli adolescenti.
Questo stato comporta una “normale sofferenza mentale” che va tollerata in attesa che la confusione si chiarisca, permettendo ai diversi stati mentali sperimentati in maniera oscillatoria di venire integrati e subordinati all'organizzazione mentale matura dell'età adulta.
In questo processo, l'adolescente si sperimenta in un'oscillazione che investe realtà e fantasia, azione e pensiero, egoismo e altruismo. Si lancia in avanti per mezzo della sessualità, delle prestazioni scolastiche o di guadagni economici, e indietro per mezzo della fantasia, dell'interesse per l'arte, la letteratura o la filosofia: investimenti parziali che devono essere debitamente integrati per raggiungere un soddisfacente equilibrio in età adulta. In questo processo, il gruppo dei coetanei assume un ruolo fondamentale, in quanto costituisce il contesto in cui l'adolescente riesce a cristallizzare le continue oscillazioni, senza l'interferenza dei genitori e mantenendo una certa quota di flessibilità. Il passaggio dal gruppo puberale, omosessuale, al gruppo adolescenziale (eterosessuale) è inoltre importante per superare la posizione schizoparanoide che interessa il primo gruppo, in cui la sofferenza mentale è proiettata sui membri dell'altro sesso, e passare a una posizione depressiva in cui diviene possibile sperimentare la sofferenza e procedere verso uno sviluppo potenzialmente positivo (Meltzer, Harris, 1983).
La negazione della sofferenza, al contrario, può portare a un'idealizzazione della confusione all'interno della comunità degli adolescenti, o a una negazione della confusione che può passare per un prematuro ingresso stabile nella comunità degli adulti (ricerca sfrenata del successo e di uno status sociale), per un ritorno nel rassicurante contesto familiare in cui i genitori possono continuare a essere idealizzati o per un isolamento melagomanico e onnipotente (in cui il crollo di una potente idealizzazione dei genitori non riesce a essere sostituita con un rivolgimento concreto verso la vita relazionale e affettiva) (Meltzer, 1979).


L'intelligenza adolescente

Piaget

Piaget (Piaget, Inhelder, 1955) fu uno dei primi autori a mettere in luce le più evolute capacità cognitive dell'adolescente in seno a un modello di sviluppo che trascende gli aspetti conflittuali considerati centrali dagli autori psicoanalitici. Secondo Piaget, in adolescenza si raggiunge il culmine dello sviluppo cognitivo: tra gli 11 e i 15 anni, il pensiero giunge al suo “stato operatorio formale” (“pensiero astratto”). Se il pensiero infantile è strettamente legato alla percezione e la concretezza degli oggetti e orientato alla realtà quotidiana, l'adolescente gradualmente diviene capace di riflettere su di sé e sul proprio pensiero, e di abbandonare il carattere monolitico e assolutistico delle concezioni infantili a favore di un relativismo che gli consente di considerare la soggettività di ogni punto di vista e di formulare ipotesi, che ormai sa di dover verificare, sulla realtà che lo circonda.

Fonagy

Fonagy (Fonagy, Target, 2000, 2001, 2002) sviluppa le concezioni piagetiane sulla comparsa del pensiero astratto in adolescenza, facendo riferimento al considerevole incremento delle capacità di mentalizzazione che interessano questa fase della vita. La mentalizzazione si riferisce alla capacità di comprendere il comportamento proprio e altrui in termini di stati mentali, ossia in termini di pensieri, emozioni e desideri che delineano la soggettività individuale. Lo sviluppo delle capacità di mentalizzazione è reso possibile da relazioni con persone che, fin dalla prima infanzia, risultano in grado di fornire al bambino sufficiente amore e riflessività. La capacità dei caregiver di fornire una comprensione e un rispecchiamento sensibili, e una risposta adeguata ai suoi diversi stati mentali, facilita nel bambino lo sviluppo della capacità di comprendere in modo accurato se stesso e il suo mondo interpersonale, e di regolare i propri stati emotivi. Sono evidenti le somiglianze con la “funzione alfa” concettualizzata da Bion (1963): uno dei punti di partenza delle teorizzazioni e degli studi di Fonagy.
A differenza di Piaget che aveva dato poco rilievo ai fattori contestuali e relazionali, Fonagy (Fonagy, Target, 2002) sottolinea come la spinta alla comprensione interpersonale, notevolmente intensificata durante l'età adolescenziale, costituisca per il giovane una competenza nuova che va esercitata e che necessita di incontrare un ambiente familiare che la supporti e la faciliti. Ovviamente, adolescenti i cui caregiver non abbiano assolto adeguatamente in precedenza la loro funzione di rispecchiamento, possono vivere in modo traumatico lo sviluppo delle capacità di mentalizzazione.
In ogni caso, l'aumento dell'interesse alla comprensione interpersonale produce dei cambiamenti rilevanti nei modi in cui l'adolescente si rapporta al suo contesto familiare e interpersonale. La capacità di riconoscere la soggettività del pensiero altrui gli consente di immedesimarsi in prospettive diverse e di distinguere tra il proprio punto di vista e quello degli altri; ciò lo porta, parimenti, a sviluppare un nuovo senso di egocentrismo: una propensione a ritenere centrale la propria prospettiva al fine di sperimentare le proprie capacità di ragionamento, specialmente nella sua relazione con gli altri. In questo contesto, è fondamentale che la famiglia si renda disponibile a sintonizzarsi con i cambiamenti del figlio o della figlia adolescente, a rinegoziare gli aspetti qualitativi e quantitativi della loro relazione. Le discussioni familiari costituiscono la palestra in cui l'adolescente può apprendere a gestire e risolvere le divergenze di opinioni, preservando sia la propria autonomia sia la relazione con i genitori: ciò è quanto avviene in famiglie in cui la qualità del rapporto e del dialogo è positiva (genitori e figli con attaccamento sicuro); in situazioni meno positive (genitori e figli con attaccamento insicuro), invece, le discussioni o la risoluzione dei problemi vengono evitate, o, al contrario, i rapporti divengono eccessivamente conflittuali, connotati da disimpegno o da una rabbia disfunzionale.

Il cervello adolescente

L'importanza, durante l'adolescenza, della presenza di figure adulte disponibili ma non intrusive, autorevoli ma non autoritarie, valorizzanti ma non lassiste, sembra essere avvalorata anche dai riscontri delle neuroscienze sul “cervello adolescenziale”.
Lo sviluppo cerebrale in adolescenza non procede in maniera omogenea. Il volume dell'attività del nucleus accumbens – parte dello striato ventrale (Nuclei della base) sede dei circuiti Cortico-Striato-Talamici del sistema limbico (l'area del cervello responsabile dell'origine delle emozioni) – degli adolescenti è simile a quello degli adulti, mentre la loro attività prefrontale – l'area “razionale” del cervello, implicata, tra le altre cose, nella modulazione delle emozioni – è più simile a quella dei bambini (Galvan et al., 2006). La maturazione della corteccia prefrontale si conclude intorno ai 25 anni. Ciò spiegherebbe la maggior tendenza degli adolescenti, rispetto agli adulti, a essere impulsivi e a mettere in atto comportamenti a rischio. Tuttavia dati di ricerca hanno dimostrato che la labilità dell'umore e l'incremento dell'emotività non sono maggiori in adolescenza rispetto ad altre fasi della vita (Larson, Lampman-Petraitis, 1989; Elliott, Feldman, 1990): potrebbe essere ragionevole ipotizzare che, nella maggior parte dei casi, le accresciute capacità cognitive dell'adolescente e la presenza di rapporti positivi con i familiari e con i pari riescano a modulare efficacemente il fisiologico squilibrio cortico-limbico che si verifica in adolescenza.

Esplorare

Le crescenti capacità cognitive dell'adolescente si pongono al servizio del sistema motivazionale esplorativo che, in questa nuova fase della vita, si rivolge a più ampi percorsi di conoscenza (Lichtenberg, 1989), nel corso di un processo di scoperta, di per sé piacevole (Buner, 1962), in cui l'individuo acquisisce una maggiore padronanza del proprio mondo interpersonale e intrapsichico, mentre comincia a procedere verso la definizione della propria identità adulta e della propria progettualità futura.



Il lutto dell'infanzia

Il vero viaggio di scoperta non consiste nell'esplorare nuove terre ma nel guardare con nuovi occhi, scriveva Proust. Nelle nuove terre dell'adolescenza, lo sguardo nuovo che si viene a formare costituisce contemporaneamente il frutto di questo processo di esplorazione e la prospettiva da cui l'esplorazione stessa viene condotta. L'abbandono definitivo delle valli dell'infanzia, al di là di quanto possano essere state più o meno rassicuranti, lascia un ricordo in cui gli aspetti incompatibili, fisici e non solo, con i cambiamenti sopraggiunti e le nuove esigenze devono essere definitivamente riposti nella propria storia; mentre la curiosità, la vitalità e la bramosia dell'infanzia devono essere integrate in una configurazione più articolata che tenga conto delle motivazioni che con forza spingono l'adolescente a gettare il suo sguardo verso il futuro.

Anna Freud

Anna Freud (1957) aveva dato una lettura di questo processo inquadrandola nel contesto della teoria pulsionale per cui il disinvestimento dai legami oggettuali infantili è la condizione imprescindibile per il definitivo superamento del complesso edipico: l'adolescente deve abbandonare la bramosia nei confronti del suo oggetto sessuale primario (madre – padre) per rivolgere i suoi investimenti, ora organizzati nella cornice della più matura sessualità genitale, verso oggetti esterni alla famiglia. Questo progressivo disinvestimento viene considerato un vero e proprio lutto (Freud, 1917): la perdita degli oggetti sessuali infantili e la rinuncia al predominio delle mire sessuali pre-genitali caratteristiche dell'infanzia, richiedono di essere elaborate in un processo che, come ogni lutto, non è esente da movimenti regressivi in cui i diversi aspetti degli oggetti a cui la libido era legata vengono soprainvestiti, prima che un definitivo distacco avvenga.
In questo processo, Anna Freud (1957) sottolinea come l'Io possa mobilitare diverse difese contro i legami oggettuali infantili: la libido può essere rapidamente trasferita dai genitori a figure esterne alla famiglia, e ciò può portare l'adolescente a crearsi degli idoli, a partecipare a bande giovanili e a formare legami appassionati con i pari (difesa per spostamento della libido); l'amore verso i propri genitori può trasformarsi in odio, la dipendenza in ribellione, il rispetto e l'ammirazione in disprezzo e derisione, e ciò può portare ad attribuire il ruolo di persecutori ai genitori o ad altre figure adulte significative della vita dell'adolescente, in un processo di proiezione della propria aggressività, oppure a incorrere in stati depressivi, vissuti autosvalutativi, atti autolesionistici o tentati suicidi, in un rivolgimento della rabbia contro di sé (difesa mediante inversione dell’affetto); vi può essere un ritiro narcisistico, in cui l'Io viene sovrainvestito a danni del mondo esterno, e l'adolescente può restare ingabbiato in fantasie di potere e di grandezza megalomaniche (difesa mediante ritiro della libido verso di sé); infine, qualora il distacco dalle figure genitoriali risulti essere troppo angoscioso per l'adolescente, l'Io può giungere a identificarsi con gli oggetti primari, con un conseguente cambiamento regressivo in tutte le parti della personalità, una sostanziale diminuzione dell'esame di realtà e dei propri confini personali (difesa mediante regressione).
È da notare come nella descrizione delle difese che l'adolescente può mettere in atto nei confronti dei legami oggettuali primari, Anna Freud si basi, sviluppandole, su alcune idee espresse dal padre in “Lutto e Melanconia” (Freud, 1917). Qui Freud poneva alla base dei fenomeni depressivi e di lutto patologico una scissione dell'Io per cui a una perdita oggettuale relativa a un rapporto improntato su basi narcisistiche e connotato da una forte ambivalenza emozionale, segue una regressione in cui una parte dell'Io si identifica con l'oggetto perduto incorporato e su di essa viene diretta l'aggressività inizialmente rivolta verso l'oggetto.
Nella descrizione delle difese che l'Io adolescente è solito mettere in atto per far fronte ai cambiamenti puberali, Anna Freud (1957) differenzia le difese contro i legami oggettuali primari dalle difese contro gli impulsi, annoverando tra queste ultime, oltre all'intellettualizzazione e alla testardaggine, l'ascetismo, in cui il controllo dei cambiamenti corporei viene portato allo stremo, in una guerra ai bisogni fisiologici che può portare a un rigido controllo della masturbazione, dell'alimentazione e dell'attività fisica.
La presenza di queste difese non è da considerarsi patologica di per sé: esse, infatti, come in ogni epoca della vita, devono essere valutate in base alla loro intensità, adeguatezza rispetto all'età, reversibilità e flessibilità (Sandler, 1990).

Winnicott

Tra gli autori che si sono occupati di descrivere il lutto che l'adolescente si trova a dover elaborare, Winnicott (1971, 1973) ha sottolineato la crisi depressiva legata al distacco dagli oggetti primari, unitamente allo “stato di bonaccia” (sentimenti di futilità e mancata definizione della propria soggettività) che interessa il processo di acquisizione di un senso di sé e al particolare “isolamento” che caratterizza questa fase della vita. Per Winnicott, l'adolescenza è un periodo più “depressivo” che “esplosivo”: pur prendendo in considerazione la dimensione pulsionale ed edipica, sembra collocarla più sullo sfondo di un processo in cui assume un ruolo di primo piano la relazione tra i compiti evolutivi dell'adolescente e la risposta che il suo ambiente di sostegno è in grado di fornire a questi ultimi; ne risulta un capovolgimento di prospettiva in cui le difficoltà che gli adolescenti possono incontrare dipendono da “insufficienze ambientali”, familiari, relazionali, sociali e istituzionali, più che da un fisiologico “turmoil” evolutivo. Ciò che viene sottolineato è la separazione dai genitori e le vicissitudini depressive che la riguardano.
L'adolescente si trova a dover affrontare nuovamente il superamento della sua condizione di “controllo onnipotente”: come il bambino, necessita di transitare dalla “realtà oggettiva”, costituita dalla sicurezza delle relazioni familiari infantili, a una “realtà soggettiva”, in cui l'incontro con “oggetti oggettivi”, i cui bisogni sono diversi dai propri e le cui reazioni sono indipendenti dalla propria soggettività (Winnicott, 1968). In questa prospettiva, la rabbia provocata dall'inevitabile disillusione scaturita dal constatare, ormai in maniera inequivocabile, che i propri bisogni e le proprie esigenze possano scontrarsi con la mancata comprensione degli adulti, diviene un mezzo per “creare” la realtà e, specularmente, la propria “soggettività”: se “l'oggetto” non sparisce e non attua ritorsioni, l'adolescente può costituirsi come individuo distinto capace di relazioni con oggetti esterni al di fuori del suo controllo.
Sotto un'altra prospettiva, potremmo vedere il processo descritto da Winnicott come il superamento dello “psichismo infantile” (caratterizzato dal pensiero magico, dall'egocentrismo, dall'onnipotenza, dall'autorità espistemica che ricoprono le figure genitoriali, dall'ipergeneralizzazione e dalla limitata comprensione delle relazioni casuali), favorito dall'accrescimento delle capacità cognitive che si verifica in adolescenza e dipendente dalla “bontà” di un ambiente “non traumatizzante” in grado di accogliere i bisogni evolutivi dell'individuo (Gazzillo, 2016).
Secondo Winnicott (1971, 1973), il processo di transizione che porta l'adolescente a “ripudiare” la realtà esterna e a costituirsi come individuo distinto è accompagnato da atteggiamenti provocatori e di insolente indipendenza regressiva, che possono alternarsi rapidamente e talora coesistere, e un forte senso di isolamento. L'adolescente ha bisogno di evitare false soluzioni e falsi compromessi, di evitare di definire se stesso e la propria progettualità prima di costituirsi come individuo distinto che esplora l'ambiente nella sua “oggettività” (cioè oltre l'influsso genitoriale), sperimentando sentimenti di unicità, e quindi di “realtà”, e sopportando i momenti in cui non riesce a sentirsi “reale”: cioè quei momenti in cui la crisi depressiva relativa al distacco dalle figure genitoriali non è ancora proceduta a tal punto da consentirgli di definire il proprio Sé. I sentimenti di “realtà” passano anche per espressioni di aggressività e agiti che assolvono a una funzione di temporanea integrazione e autoaffermazione.
In questo processo, l'adolescente necessita di un ambiente che tolleri e accolga le sue mutevoli esigenze, le espressioni di sé e le sue incertezze, rispondendo contingentemente ai suoi bisogni di dipendenza ancora attivi.
Questa naturale crisi adolescenziale è caratterizzata da un forte senso di isolamento: l'adolescente winnicottiano è un individuo isolato che ricerca l'aggregazione mediante l'adozione di gusti comuni, e il gruppo adolescenziale rappresenta unicamente “un aggregato di isolati” (Winnicott, 1971), a meno che non venga attaccato come gruppo e quindi si strutturi in un'organizzazione paranoide reattiva. Il gruppo costituisce il luogo delle identificazioni di prova per gli adolescenti ed è per questo un contesto in cui individui che abbiano sviluppato vulnerabilità a causa di un insufficiente sostegno ambientale possono dare corpo alla loro sintomatologia potenziale, specialmente per quanto riguarda le tendenze antisociali. Infatti, la presenza di adolescenti depressi o antisociali all'interno di un gruppo, può portare quest'ultimo a strutturarsi in conformità a tali posizioni estreme. Gli agiti tipicamente adolescenziali (lotta, furti, fughe, ecc.) e le incursioni sperimentali nel mondo degli adulti (sedersi in un circolo a bere o ad ascoltare musica) fanno parte delle dinamiche adolescenziali che naturalmente evolvono verso un affievolimento della protesta in essi insita, a meno che membri particolarmente turbati del gruppo non strutturino l'organizzazione di quest'ultimo.



La conquista dell'autonomia

Il lutto adolescenziale per la perdita del proprio corpo e delle proprie relazioni infantili è strettamente legato ai moti di individuazione e di autonomizzazione particolarmente spiccati in questa fase della vita, e che in particolar modo caratterizzano la media adolescenza (dai 14-15 fino ai 17-18 anni) (Blos, 1962). Il raggiungimento dell'autonomia psichica è stato concettualizzato come un processo sofferto, legato al superamento definitivo delle tematiche edipiche (A. Freud, 1957), al raggiungimento di un sapere relativo, fatto di conoscenze e incertezze, tipico del mondo adulto (Meltzer, 1979) e al distacco dai legami di tipo infantile con gli adulti di riferimento (A. Freud, 1957; Winnicott, 1971), in cui l’investimento sul gruppo adolescenziale riveste la più normale modalità di passaggio dalle relazioni dell'infanzia con i familiari a quelle amicali, sentimentali e della vita adulta.

Kestemberg

In linea con queste concettualizzazioni, Evelyn Kestemberg (1962, 1980; Kestemberg, Morvan,. 1985) concepisce l'adolescenza come un periodo di profondo sconvolgimento in cui è centrale il rigetto delle identificazioni precedenti: una “crisi” che è necessario vivere e risolvere per evitare l'impoverimento a cui la sua forclusione o il suo mascheramento porterebbe, e per giungere a una riorganizzazione globale e più matura dell'equilibrio psichico.
Il raggiungimento di una nuova organizzazione della personalità deve necessariamente passare per la disorganizzazione dell'equilibrio pre-puberale. La strutturazione dell'Io dipende dalle identificazioni infantili e lo specifico schema che esse predispongono, e che non può prescindere dalle dinamiche edipiche, informerà i modi in cui l'adolescente fronteggerà le pulsioni genitali e i cambiamenti corporei. I cambiamenti puberali producono uno sconvolgimento profondo degli investimenti oggettuali e narcisistici, che dà il via a un processo di angosciante ricerca della propria identità. Per giungere a una nuova rappresentazione di sé, l'adolescente deve staccarsi dalla sua precedente immagine infantile e allontanarsi dagli investimenti edipici; le immagini genitoriali devono essere rifiutate e deve essere pertanto tollerato il conseguente dissolvimento di quei punti di riferimento fino ad allora considerati inamovibili. Ciò può implicare un iniziale rigetto di sé come essere sessuato, e un senso di estraneità nei confronti degli altri e di se stesso. Le trasformazioni corporee, infatti, minano la coesione identitaria fino a quel momento raggiunta. Essa può essere ristabilita solo attraverso una moltiplicazione delle esperienze in cui la diversificazione degli investimenti oggettuali consente di affrancarsi gradualmente dalle relazioni d'oggetto familiari e di ristrutturare il proprio Io e il proprio Ideale dell'Io attraverso nuove interiorizzazioni e identificazioni.
Questo processo si declina secondo modalità strettamente legate alla qualità dell’evoluzione precedente e dei rapporti familiari attuali, e il suo sviluppo dipenderà dalla qualità di “oggetti mediatori” (esperienze con genitori e altri adulti significativi, con coetanei o all'interno dei gruppi di pari), nella misura in cui essi riusciranno a rimandare all'adolescente un'immagine soddisfacente di se stesso e a fornirgli modelli di identificazione che gli permettano di riprendere il percorso di crescita turbato dall'instaurarsi della pubertà.
In caso siano presenti criticità nella storia evolutiva passata e/o nelle relazioni familiari attuali, l'adolescente può essere portato a rifiutare brutalmente gli ideali e le immagini parentali, finendo così, in assenza di validi “oggetti mediatori”, a sviluppare una ferita narcisistica, e un conseguente deprezzamento personale, essendo venute meno le fondamenta sui cui aveva organizzato la sua personalità. Al contempo, la mancanza di “oggetti mediatori” adeguati, e la conseguente difficoltà a pervenire a nuove adeguate identificazioni, può portare a disturbi dell'identità sino a rotture con la realtà di diverso livello di gravità.

Blos

Il distacco dalle figure genitoriali viene inquadrato da Peter Blos (1962, 1967) all'interno di un “secondo processo di separazione – individuazione”. Il pensiero di Blos si fonda sulle concettualizzazioni di Margaret Mahler (Mahler et al., 1975) sullo sviluppo psichico infantile. L'autrice sostiene che il primo mese di vita del neonato sia caratterizzato da un “autismo normale”, in cui il bambino è rivolto verso se stesso, centrato sui suoi bisogni, non ha consapevolezza dei suoi caregiver ed è relativamente indifferente nei confronti degli stimoli esterni. Dal secondo al quarto mese, il bambino passa a una seconda fase, detta “simbiotica”, in cui si rappresenta il rapporto di dipendenza con la madre come se egli facesse parte con lei di una stessa unità non differenziata. Successivamente prende il via il "processo di separazione-individuazione", che si protrarrà fino al terzo anno di vita e attraverso il quale il bambino giungerà a percepirsi separato dalla madre e strutturerà il suo senso di identità.
Il processo di separazione-individuazione è diviso in quattro sottostadi.
Durante il primo sottostadio, “differenziazione e sviluppo dell'immagine corporea” (4º– 8º mese), il bambino prende coscienza del suo corpo e dei suoi schemi senso-motori, comincia a esplorare l'ambiente e riesce a distinguere la madre dalle altre persone.
Nel corso del secondo sottostadio, detto della “sperimentazione” (8º – 14º mese), il bambino mette alla prova le sue accresciute capacità motorie, allontanandosi e avvicinandosi alla madre, al fine di creare con lei una “distanza ottimale” che gli consenta di giocare, di esplorare attivamente l'ambiente e di controllare contestualmente la sua paura della separazione.
Nel corso del terzo sottostadio, detto del “riavvicinamento” (14º – 24º mese), il bambino presta molta attenzione alla madre, a ciò che le accade e alle sue reazioni, alternando movimenti di avvicinamento e di allontanamento che gli consentono, intorno ai 21 mesi, di trovare una distanza ideale da lei.
Nell'ultimo sottostadio, detto della “costanza dell'oggetto libidico” (3º anno), il bambino perviene a una rappresentazione stabile e distinta di se stesso e della madre, afferma la sua individualità e riesce a svolgere attività piacevoli anche in caso di una sua assenza prolungata.
Secondo Blos (1962, 1967), in adolescenza si verifica un secondo processo di separazione – individuazione che comporta il distacco emozionale dagli oggetti infantili interiorizzati e lo speculare allontanamento dalle figure genitoriali. Il venir meno del supporto egoico dei genitori, insieme all'aumentata intensità della tensione pulsionale, è responsabile della debolezza dell'Io che, secondo Blos, caratterizza l'adolescenza. Tuttavia, affinché si concluda la formazione del carattere è indispensabile che l'adolescente si differenzi e diventi sempre più indipendente dal suo ambiente.
L'adolescente alterna movimenti di allontanamento e riavvicinamento nei confronti delle proprie figure genitoriali, oscillando tra disinvestimento affettivo e moti regressivi. Il disinvestimento affettivo dei genitori è funzionale a prendere le distanze dai legami infantili interiorizzati, e di investire in nuove relazioni e in nuove attività, ma determina un senso di vuoto e di isolamento. L'angoscia che questi ultimi determinato viene fronteggiata attraverso moti regressivi che portano a prediligere l'azione rispetto al pensiero, ad ammirare in maniera incondizionata altri adulti (reminiscenza dell’idealizzazione dei genitori), ad attivare stati emozionali fusionali (ad esempio, all'interno di gruppi guidati da un determinato ideale) e a ricercare stimolazioni costanti che consentano di colmare il vuoto.
In seno a questo processo, l'adolescente riesce a trovare una sempre maggiore separatezza dalle figure genitoriali, a orientarsi verso il gruppo dei pari (prima adolescenza), a investire su altri oggetti e su ideali diversi da quelli familiari (adolescenza vera e propria), e ad acquisire un senso stabile e separato di sé, divenendo autonomo dalle fonti di sostegno esterno (tarda adolescenza).

Attaccamento, esplorazione e autonomia

I moltissimi riscontri delle ricerche empiriche condotte nell'ambito dell'Infant Research nel corso degli ultimi decenni (vedi ad es. Beebe, Lachmann, 2002; Riva Crugnola, 2007) hanno dimostrato che, fin dalla nascita, il bambino è orientato verso la realtà, è in grado di differenziare se stesso dal mondo esterno, di organizzare in maniera coerente ciò che percepisce e ciò che vive, e di sintonizzarsi e interagire con l'ambiente intorno a lui. Alla luce di queste evidenze, le ipotesi freudiane e mahleriane sullo sviluppo psichico infantile non sono sostenibili. Allo stesso modo, i dati che indicano come per la maggior parte degli individui l'adolescenza sia un periodo privo di particolari criticità (Offer, Offer, 1975; Rutter et al., 1976; Offer et al., 1991), depongono a sfavore di molti aspetti delle teorie classiche qui enucleate che ne hanno sottolineato il carattere turbolento. La spinta all'autonomia, compresa nel sistema motivazionale esplorativo-assertivo di Lichtenberg (1989), non è in antitesi con le altre motivazioni dell'individuo, ma piuttosto presente fin dalla prima infanzia: fa parte di un insieme di motivazioni il cui ordine gerarchico muta al variare delle esigenze di ogni specifico momento e dei compiti di sviluppo precipui di ogni fase della vita (ibidem).
Le concettualizzazioni psicoanalitiche dell'adolescenza concordano nel ritenere centrale, conseguentemente alle trasformazioni puberali, il superamento della dipendenza infantile nei confronti dei caregiver, la sostituzione dei legami primari con rapporti più maturi di tipo amicale e sentimentale-sessuale, e il raggiungimento di una definizione di sé come individuo separato dai propri genitori. La letteratura scientifica e le concettualizzazioni più moderne hanno messo fortemente in discussione questi assunti.
La ricerca evolutiva (Sameroff, Emde, 1989; Stern, 1989) ha evidenziato come sia centrale nell’individuo la ricerca ed il mantenimento di relazioni significative e reciproche. L'essere umano possiede delle disposizioni innate che permettono l'emergere, fin dalle prime fasi dello sviluppo, di complesse capacità sociali e interattive (Schaffer, 1977; Trevarthen, 1979). L'intreccio fra tali competenze precoci e le dinamiche interattive esperite nel corso della prima infanzia si è rilevato un prezioso indicatore dello sviluppo successivo (Sroufe, 1995, 2005; Sroufe et al., 2005; Schore, 2001a, 2001b). Le ricerche e gli studi nell'ambito della Teoria dell'Attaccamento (Bowlby, 1969; Bowlby, 1989; Cassidy, Shaver, 2010) hanno evidenziato come la motivazione centrale del neonato alla nascita sia la ricerca di un legame di attaccamento stabile, ossia la ricerca di un legame affettivo significativamente gratificante all'interno del quale trovare protezione, cura e conforto. La vicinanza e la disponibilità di una figura amorevole, obiettivo esterno a cui mirano i comportamenti d'attaccamento del bambino, garantisce il raggiungimento di un senso di sicurezza (obiettivo inteno): in caso di pericolo o necessità c'è qualcuno che si occupa di me, e posso stare tranquillo!
Questo bisogno di sostegno rimane attivo per tutto il corso della vita: nel corso degli anni la vicinanza fisica delle figure di attaccamento non sarà più indispensabile, basterà saperne la disponibilità e la reperibilità. Tutti i legami significativi saranno investiti da questa motivazione: potrà restare sullo sfondo quando le cose vanno bene, si è felici e soddisfatti, impegnati in una conversazione piacevole, in attività divertenti, quando si fa sesso, oppure quando si è concentrati nella propria attività di studio o lavorativa, si legge un libro o si guarda un film, si visita una città, ci si dedica a uno sport, ci si dedica alla risoluzione di un problema, ecc. Quando, invece, insorgerà una qualche difficoltà, un malessere fisico o emotivo, una preoccupazione, il bisogno di avere qualcuno vicino pronto a prestare ascolto, conforto e aiuto si riattiverà con forza: ciò vale sia nella ricerca dell'ascolto del partner o di un amico per “sfogarsi” delle piccole frustrazioni quotidiane sia per difficoltà e sofferenze di grado maggiore. Quanto detto è possibile, ovviamente, solo nelle misura in cui le esperienze di attaccamento vissute abbiano creato l'aspettativa, conscia e/o inconscia, di trovare persone amorevoli e disponibili e di essere meritevoli di sostegno e disponibilità: in questo caso si parla di attaccamento sicuro. L'indisponibilità, o la disponibilità parziale, che si attendono le persone con un attaccamento insicuro in virtù delle esperienze negative vissute nel corso della propria storia evolutiva, può interferire con la motivazione all'attaccamento: o nel senso di una forclusione dei propri bisogni di protezione, conforto e cura (Attaccamento Distanziante), o nel senso di un eccessivo invischiamento derivato da una difficoltà a raggiungere un senso di sicurezza interno (Attaccamento Preoccupato).
In adolescenza, se è vero che i comportamenti d'attaccamento verso i genitori vengono attivati con meno frequenza a favore dei sistemi motivazionali esplorativo-assertivi, affiliativi, sessuali e oppositivi, i genitori permangono come “base sicura” a cui rivolgersi soprattutto in caso di difficoltà o di stress: pertanto, l'individuazione non si ottiene prendendo le distanze dai genitori, ma è qualcosa che necessita, piuttosto, della loro presenza discreta e del loro sostegno (Ryan, Linch, 1989; Ammaniti et al., 1999). Una storia di relazioni positive con i genitori, d'altra parte, è correlata con i comportamenti adolescenziali di ricerca dell'autonomia (Allen et al., 1994; Allen, Land, 1999).
Ad ogni modo, nel periodo che segue immediatamente la pubertà si riducono considerevolmente, per poi aumentare nuovamente in fasi più avanzate dell'adolescenza, la condivisione delle decisioni con i genitori (Hill, 1988; Montemayor, Hanson, 1985; Steinberg, 1981), l'intimità affettiva (Steinberg, 1997) e il tempo passato con loro (Csikzenmihalyi, Larson, 1984; Youniss, Smollar, 1985). Sempre nella prima adolescenza, il funzionamento familiare può divenire meno soddisfacente (Olson et al., 1983) e i conflitti essere più aperti. Tuttavia, il conflitto tipicamente non è mai intenso e non porta a una diminuzione della forza del legame affettivo (Montemayor, 1982,1983; Smentana, 1988).
Durante le separazioni dai genitori, via via sempre più lunghe, l'adolescente può mettere alla prova le proprie capacità, cercare nuove figure di attaccamento, acquisire nuove competenze e un senso sempre maggiore di autoefficacia (Rice, 1990). Anche nelle fasi di “distacco dalla famiglia”, i genitori continuano a costituire una fonte di aiuto, sia concreta e vicina, nei momenti di bisogno e di stress, sia a distanza in maniera potenziale: la loro disponibilità e il loro incoraggiamento, rispetto a compiti adeguati all'età, facilita i moti esplorativi e di autonomizzazione del figlio adolescente (Ryan, Lynch, 1989).
Il mutamento dei rapporti tra genitori e figli adolescenti, da questa prospettiva, può essere inteso come "una riorganizzazione e ridefinizione dei legami familiari" (Steinberg, 1990) piuttosto che come un progressivo processo di distacco.
La ricerca ha dimostrato come la funzionalità o la disfunzionalità, per la crescita dell'adolescente, degli scontri tra i genitori e i figli, dipenda da fattori contestuali e individuali (Cooper, 1988; Cooper, Ayers-Lopez, 1985; Hauser et al., 1991; Youniss, Smollar, 1985). Ad esempio, sono state evidenziate alcune differenze sostanziali fra adolescenti con stili di attaccamento diverso (Allen, Land, 1999; Becke-Stoll, Fremmer-Bombik, 1997; Reimer et al., 1996). Se gli adolescenti con attaccamento Sicuro negli anche intensi disaccordi con i genitori dirigono i loro sforzi per preservare sia i propri bisogni di autonomia sia la relazione con loro, nelle coppie di genitori e figli con attaccamento Insicuro le cose vanno diversamente: i problemi vengono evitati, si verifica un forte disinvestimento emotivo da una o da entrambe le parti, o, viceversa, l'eccessivo invischiamento e/o una rabbia estrema rendono impossibile la risoluzione dei conflitti.



La costruzione dell'identità

I vari autori che si sono occupati di psicologia dell'adolescenza concordano nel porre al culmine di questa fase evolutiva il raggiungimento di una nuova organizzazione psichica matura che sancisce l'ingresso nel mondo degli adulti: il tema della costruzione dell'identità, pur non sempre costituendone il perno, ha rappresentato una linea di riflessione rilevante in ognuna di queste concettualizzazioni. Tuttavia, fu Erikson (1959, 1963, 1964, 1982) il primo a occuparsene estesamente e a considerare la ricerca della propria identità il compito di sviluppo principale di ogni adolescente.


Erikson

Erikson (1968, p. 192) definisce l'identità una “configurazione che gradualmente integra dati costituzionali, esigenze libidiche idiosincratiche, capacità preferite, identificazioni significative, difese efficaci, sublimazioni ben riuscite e ruoli consistenti”. È l'esito di un processo che si pone in linea di continuità con le sue origini infantili, ma che incontra in adolescenza una fase di riorganizzazione che connota un periodo “naturale” di sradicamento e di crisi d’identità, la cui risoluzione dipenderà dalle peculiari modalità con cui durante l'infanzia sono stati integrati i differenti elementi identitari (Erikson, 1963, 1964, 1982). Le identificazioni passati e attuali, le competenze che si ha avuto modo di sperimentare e i ruoli assunti nelle diverse relazioni significative verranno riorganizzati in un complesso unico e quanto più coerente possibile (Eriskson, 1968, 1982).
Distanziandosi dalla teoria psicoanalitica, Erikson (1963) ritiene che il risultato di questo processo derivi dallo scambio attivo tra l'individuo e il suo ambiente fisico e sociale. La dimensione pulsionale perde la sua centralità a favore dei modelli di funzionamento che si succedono allo scopo di assolvere agli specifici compiti evolutivi, funzionali a mediare la forza delle pulsioni e a intessere i rapporti sociali. Lo sviluppo psichico è visto alla luce di uno sforzo continuo ad adattarsi all'ambiente: gli stadi dello sviluppo psicosessuale concettualizzati da Freud (1905) vengono messi in relazione con gli aspetti culturali e sociali, ed estesi lungo tutto il corso dello sviluppo (Erikson, 1950). Nella modellizzazione eriksoniana, lo sviluppo individuale si declina lungo otto tappe che si succedono dall'infanzia all'età adulta, ciascuna delle quali caratterizzata da una potenziale crisi evolutiva che ha per scopo il raggiungimento di una determinata “virtù” attraverso il superamento di uno specifico dilemma psicosociale che nasce dalla relazione tra l'individuo e il suo ambiente. La maturazione fisica ha ripercussioni personali e sociali e, al contempo, le pressioni socioculturali ne influenzano considerevolmente lo sviluppo. Vi è un adattamento reciproco tra l'individuo e la “cultura”: le diverse culture rivelano modi idiosincratici di guidare e promuovere il comportamento dell'individuo in ogni fase del suo sviluppo. Le “crisi” descritte negli otto stadi sorgono dall'interazione tra la maturazione psico-fisica e le aspettative sociali. Ciascuno di questi stadi è dominato da “problemi” che rimangono sullo sfondo in altre fasi della vita. Se le crisi non trovano una soluzione soddisfacente nel corso dello specifico stadio di cui sono espressione, l'individuo si troverà a doverle fronteggiare anche in seguito, contemporaneamente alla crisi dello stadio specifico in cui si trova.
Durante il primo anno di vita (infanzia), periodo in cui Erikson (1950, 1968) colloca il primo stadio dello sviluppo individuale, il bambino ha il compito di acquisire un buon equilibrio tra una fiducia e una sfiducia di fondo nei confronti degli altri: se, grazie alla disponibilità e alla sensibilità dei caregiver nei confronti dei suoi bisogni, la conclusione di questa fase vede uno sbilanciamento nei confronti della fiducia, il bambino acquisirà un senso di “speranza” e una “fiducia di fondo”, in se stesso e negli altri, che lo guiderà nelle relazioni future.
Il secondo stadio è compreso tra i due e i tre anni (prima fanciullezza), periodo in cui il bambino comincia a esplorare l'ambiente con maggior curiosità e ad acquisire una maggior padronanza nei movimenti, nell'utilizzo del linguaggio e nel controllo sfinterico. Il dilemma è tra l'autonomia e le sensazioni di vergogna e dubbio: una presenza dei genitori che rassicuri e che al tempo stesso valorizzi i comportamenti esplorativi e i primi moti di autonomia, favorirà nel bambino l'acquisizione di una maggiore indipendenza fisica e psicologica, e gli consentirà di cominciare a porre la propria “volontà” (la “virtù” di questa fase) in contrapposizione a quella altrui.
Tra i quattro e i cinque anni (età del gioco), il conflitto è tra lo spirito di iniziativa e il senso di colpa. La “finalità” è la “virtù” che caratterizza questo stadio. Esso è centrato sull'identificazione con i genitori, percepiti come grandi e potenti. I genitori vengono utilizzati sia come modello identitario sia come polo da cui allontanarsi per sperimentare la propria operosità e la propria iniziativa. Il gioco di “ruoli” caratteristico di questa fase richiede una valorizzazione coinvolta e flessibile che sostenga lo spirito d'iniziativa del bambino.
Dai sei anni alla pubertà (età scolare), il dilemma è tra l'industriosità e l'inferiorità. In questo stadio, la virtù da raggiungere è un senso di “competenza”: entrando a scuola, il bambino fa il suo ingresso nel mondo della conoscenza e del lavoro; è il periodo in cui gli apprendimenti hanno un ruolo di primo piano, in cui vengono ampliate e messe alla prova le proprie abilità. L'acquisizione di un senso di industriosità, competenza e padroneggiamento, o al contrario di inadeguatezza e inferiorità, dipenderà dalla qualità delle esperienze che verranno fatte durante questa fase.
Se i dilemmi tra intimità e isolamento, generatività e stagnazione, integrità e disperazione/disprezzo, costituiscono i temi centrali rispettivamente della giovinezza, dell'età adulta e della senilità, è in adolescenza che la ricerca della propria identità assume una posizione di rilievo.
Le profonde trasformazioni somatiche e le pressioni culturali a prendere decisioni relative alla propria formazione e alla propria occupazione futura, spingono gli adolescenti a integrare le diverse identificazioni infantili, a cercare nuovi modelli e a sperimentare nuovi ruoli. Il conflitto, in questa fase, è tra l'identità e la diffusione dell'identità: esso prevede un'oscillazione fisiologica fra ruoli, relazioni e mete diverse (moratoria psicosociale), e l'assunzione di un senso di sé più definito che integri in maniera quanto più possibile coerente le antiche e nuove immagini di sé. La società ha un ruolo importantissimo in questa fase, poiché ha la funzione di fornire all'adolescente la possibilità di sperimentarsi in ruoli diversi e di offrirgli strutture ideologiche in cui il giovane può riconoscersi ed essere riconosciuto. In questo senso, per Erikson, l'adolescenza è la fase del ciclo vitale in cui la cultura esercita il suo influsso maggiore. Se l'esito delle tappe evolutive precedenti ha un impatto non trascurabile sulla crisi d'identità che caratterizza l'adolescenza, la società può fornire all'adolescente un valido supporto per superare i dilemmi non risolti in precedenza, favorire l'integrazione delle diverse identificazioni infantili, e offrire dei ruoli in cui l'adolescente può sperimentarsi e che lo facilitino nell'effettuare le scelte che delineeranno la sua identità futura. La “fedeltà” è la virtù di questo stadio di sviluppo, e riguarda sia un più maturo senso di fiducia nei confronti di se stessi e degli altri sia la capacità di rimanere leali nei confronti di una causa, al di là della matrice ideologica da essa sottesa.

Marcia

Partendo dalle concettualizzazioni di Eikson, Marcia (1966) ha descritto quattro stadi dell'identità che si susseguono nel corso dell'adolescenza e che segnano il percorso evolutivo finalizzato all'acquisizione dell'identità adulta. Tale percorso procede dai livelli meno organizzati a quelli più organizzati: dalla “diffusione dell'identità”, che può essere vissuta come una crisi o meno, ed è caratterizzata da un'esplorazione superficiale e mutevole, e da uno scarso impegno in relazioni e attività; “all'acquisizione dell'identità”, in cui, al culmine di un'esplorazione impegnativa e profonda, ci si impegna nelle alternative scelte. Tra questi due poli estremi, Marcia colloca la “moratoria”, in cui l'esplorazione, approfondita ma mutevole, non conduce a compiere scelte a cui dedicarsi e porta l'adolescente a sperimentare una crisi, e la “conclusione precoce”, in cui vi è un'inibizione dell'esplorazione e una tendenza a far propri i desideri dei genitori o di altri adulti.
Marcia considera la successione degli stati d'identità identica in ogni adolescente. Tuttavia, studi successivi (Meeus et al., 1999) hanno dimostrato che l'adolescente può rimanere bloccato in uno dei quattro stati o percorrerli seguendo percorsi diversi e oscillatori.
Infine, se Marcia ha posto la crisi d'identità nella tarda adolescenza, tra i 18 e i 22 anni, Erikson, come altri autori, ha sottolineato come il conflitto d'identità cominci già nelle prime fasi dell'adolescenza.


Uno sguardo d'insieme

Nonostante l'eterogeneità del pensiero degli autori che si sono occupati di adolescenza, è possibile delineare alcuni aspetti su cui sembra esserci abbastanza accordo.
L'adolescenza è una fase evolutiva il cui inizio ruota intorno alla pubertà e che si estende negli anni successivi. È una fase in cui, unitamente alla maturazione sessuale e alle trasformazioni corporee, l'individuo sviluppa notevolmente le sue abilità cognitive, nonostante le sue capacità di regolazione emotiva non siano ancora giunte a maturazione. I rapporti familiari ed extra-familiari cambiano notevolmente: l'adolescente è maggiormente rivolto verso l'esterno; esplora e si sperimenta in attività e relazioni diverse. In questa fase l'individuo si trova a dover fronteggiare alcuni compiti di sviluppo che interessano tutta l'adolescenza, ma che divengono dominanti in alcuni periodi:
  1. rivolgimento verso di sé e integrazione delle modifiche corporee (prima adolescenza, 11-12 fino ai 14 anni);
  2. autonomizzazione, individuazione, e creazione di legami extra-familiari (seconda adolescenza, 14-15 fino ai 17-18 anni)
  3. costruzione dell'identità (tarda adolescenza, 17-18 anni fino al raggiungimento dell’età adulta).


lunedì 6 marzo 2017

PERCHE' "FIDARSI DEI PAZIENTI"

L'introduzione italiana alla “Control Mastery Theory” di Francesco Gazzillo


Quando mi è stato chiesto di collaborare alla stesura di un capitolo, nel nuovo libro di Francesco Gazzillo, che illustrasse i legami tra la Control Mastery Theory e i principali modelli di psicoterapia, ho accettato entusiasta e non solo per l'affetto e la stima che mi lega all'autore di “Fidarsi dei pazienti”. Fin dagli inizi della mia formazione, ho sempre ritenuto indispensabile che ogni scienza procedesse verso un'integrazione delle sue conoscenze; un'integrazione che si configurasse non come un appiattimento della pluralità del sapere in una visione univoca, ma come la possibilità di osservare la complessità del reale, di gettare lo sguardo su aspetti diversi dei fenomeni e dell'esperienza: per conoscere davvero anche solo una statua bisogna girarci intorno, sopra e sotto, bisogna saper assumere prospettive diverse.
La verifica scientifica delle ipotesi costruite a partire dall'osservazione e dall'esperienza clinica ha sempre più consentito alla psicologia e alla psicoterapia di giungere a un “sapere” e a un “saper fare” affidabili, di svincolarsi dalle voci autorevoli che ne hanno fatto la storia e di non doversi affidare unicamente alla pur necessaria acutezza e sensibilità di clinici e teorici. Ha consentito, in altri termini, di offrire all' <<utente psi>> dei servizi la cui efficacia è stata ormai ampiamente dimostrata. Lontana dall'intento di appiattire la dimensione umana e soggettiva fondante ogni relazione, inclusa quella clinica, la ricerca in psicoterapia si sta sempre più ponendo lo scopo di fornire criteri guida affidabili che aiutino il clinico ad adattare la propria sensibilità, la propria umanità, il proprio modello teorico e la gamma di approcci e tecniche che ha a disposizione, ai bisogni dello specifico paziente di cui vuole occuparsi: potremmo dire, la ricerca sta cercando di aiutare lo psicoterapeuta a “Fidarsi dei pazienti”.
“Fidarsi dei pazienti”, fin dalla sua introduzione, sottolinea l'importanza di prendere in seria considerazione le poche, ma molto solide, risposte che la ricerca in psicoterapia ci ha dato negli ultimi cinquant'anni (Norcross, 2011; Wampold, Imel, 2015):
“1) tutti i tipi di psicoterapia, indipendentemente dall’orientamento teorico a partire dal quale vengono condotti, sono ugualmente efficaci (il famoso verdetto di Dodo) se condotti in coerenza con un modello a cui terapeuta e paziente prestano fede;
2) le psicoterapie elaborate per affrontare i problemi specifici, e adattate alle caratteristiche peculiari di un paziente sono più efficaci di quelle “generiche” - “patient tailored” è meglio che “one-size-fits-all”;
3) la qualità della relazione interpersonale reale che lega clinico e paziente, la condivisione degli obiettivi della cura, l’accordo sui compiti reciproci (alleanza terapeutica; Lingiardi, 2002) e la presenza di aspettative positive sono molto importanti per l’efficacia di un trattamento, così come lo sono l’autenticità del terapeuta, la sua empatia, il fatto che accetti il paziente, lo sostenga nel raggiungimento dei suoi obiettivi e che riesca a modularne le emozioni.
4) alcune caratteristiche meramente umane del clinico, come la sua capacità di modulare le emozioni dei pazienti, di costruire relazioni diverse con persone diverse, di mettere in dubbio ciò che fa se non aiuta il paziente e di vedere la realtà con gli occhi dell’altro sono molto più importanti delle tecniche adottate nel favorire il buon esito di un trattamento.” (Gazzillo, 2016, pag. XXX )
La sostanziale equivalenza dei diversi tipi di terapia porta a chiederci “cosa realmente aiuta i pazienti”, ad abbandonare i dogmi di una data “scuola” di appartenenza per cercare di comprendere al meglio la persona che abbiamo di fronte e di aiutarla nel modo migliore possibile, liberi di utilizzare l'intera gamma di conoscenze, approcci e tecniche che abbiamo a disposizione, al di là della matrice teorica che le prevede, per adattarla alle esigenze di ogni specifico paziente in ogni specifico momento.
L'individuazione di aspetti meramente relazionali come fattori maggiormente predittivi di un buon esito del trattamento, inoltre, suggerisce la necessità di fornirci, nel nostro lavoro, di una “mappa relazionale” affidabile che ci consenta di regolare la nostra relazione con il paziente, e quindi i nostri interventi ma anche la nostra soggettività, in modo che possa essere mutativa. E ciò vale per pazienti di ogni fascia evolutiva (bambini, adolescenti, adulti) e per ogni tipo di setting (individuale, gruppale, familiare, di coppia, counselling e terapie brevi).


La Control Mastery Theory

La Control Mastery Theory (Weiss et al., 1986; Weiss, 1993; Gazzillo, 2016) può, in tal senso, divenire un valido alleato. Oltre a essere una teoria della psicopatologia e della psicoterapia di stampo psicoanalitico – ma per molti aspetti lontana anni luce dai concetti fondamentali della psicoanalisi classica –, la rigorosità con cui ha messo alla prova e confermato empiricamente le sue ipotesi centrali, i molti punti di contatto con i principali modelli teorici e psicoterapeutici contemporanei (cognitivismo clinico, teoria dell'attaccamento, infant research, psicologia evolutiva, psicoterapia umanistica, ect.) e l'attenzione “scientifica” che ha rivolto al processo terapeutico e all'analisi delle reazioni del paziente agli interventi del terapeuta, la rendono un metamodello integrabile con qualsiasi approccio e una valida cornice che permette di sistematizzare agevolmente i dati clinici e di orientare e calibrare consapevolmente, in maniera caso-specifica, gli interventi terapeutici.


Adattamento e sicurezza


Adattamento

Lo scopo principale della mente e del cervello è favorire l'adattamento quanto più ottimale possibile dell'individuo al suo ambiente (McGuire et al., 1992; Wakefield, 1997): questa è la premessa fondamentale della Control Mastery Theory.
Sopravvivere e riprodursi: gli imperativi a cui il “gene egoista” (Dawkins, 1976) assoggetta ogni essere vivente. Ogni organismo nasce preprogrammato per adattarsi all'ambiente ed è costantemente guidato da questa motivazione sovraordinata: tale assunto, lascito della lezione darwiniana, fornisce la cornice concettuale imprescindibile delle moderne Scienze Naturali ed è oggi condiviso dalla maggior parte degli orientamenti psicologici (Cognitivismo, Teoria dell'Attaccamento, Psicologia Evolutiva, Infant Research, Psicoanalisi relazionale, ect.).
Tutti noi abbiamo bisogno di un ambiente da cui attingere il necessario per sopravvivere e la natura ci ha predisposti per permetterci di procurarcelo. Abbiamo bocche per nutrirci e respirare, sistemi biologici complessi che regolano la nostra fisiologia e ci consentono di mantenere un'omeostasi con l'ambiente, e tutta una serie di capacità e motivazioni innate che ci spingono in questa direzione. Il cervello è la cabina di regia che silenziosamente orchestra questa magia e il funzionamento mentale è ciò che regola/controlla, consapevolmente e inconsapevolmente, il nostro comportamento per permetterci di padroneggiare al meglio l'ambiente e di trarre da esso tutto ciò di cui abbiamo bisogno: “Control Mastery Theory” significa proprio “teoria della padronanza e del controllo” e si fonda interamente su questa concezione del funzionamento mentale.
“Al centro di questo modello vi è la constatazione che le persone abbiano la capacità di eseguire inconsciamente funzioni mentali “superiori”, di controllare, in modo consapevole e inconsapevole, la propria vita mentale conscia e inconscia, e che siano intrinsecamente motivate ad adattarsi alla realtà, a padroneggiare le difficoltà, a superare le loro inibizioni e i loro problemi, a elaborare i loro traumi e a realizzarsi dal punto di vista personale e relazionale.” (Gazzillo, 2016, pag. 3)
Le ricerche svolte nell'ambito dell'Infant Research hanno dimostrato come fin dalla nascita ogni essere umano abbia la capacità, e sia fortemente motivato, a organizzare coerentemente la propria esperienza percettivo-affettiva, ad autoregolarsi, a padroneggiare gli eventi (Emde, 1989) e a sintonizzarsi con il mondo intorno a lui (Stern, 1985). In altri termini, come sottolinea la Control Mastery Theory, l'essere umano è precocemente motivato a crearsi una conoscenza affidabile del mondo fisico e interpersonale e a riflettere su di essa, ad agire sulla realtà per appagare i suoi bisogni e a mantenere una relazione positiva e amorevole con le persone che si prendono cura di lui e da cui, inevitabilmente nei primi anni di vita, dipende la sua sopravvivenza.

Motivazioni, bisogni, obiettivi

L'imperativo dell'adattamento vige per tutto il corso dell'esistenza dell'individuo e si articola in sistemi motivazionali che ne guidano il comportamento. Lichtenberg (1989) e Lichtenberg, Lachmann e Fosshage (2011) hanno individuato alcuni sistemi motivazionali principali, volti a promuovere la realizzazione e la regolazione dei bisogni di base”, sempre attivi, seppur in misura diversa, per tutto il corso della vita: la regolazione psicologica delle richieste fisiologiche dell'organismo, il bisogno di attaccamento e quello di affiliazione, l'assertività e la motivazione a esplorare l'ambiente, il bisogno di reagire con comportamenti di opposizione o evitamento a stimoli avversivi, il piacere sensuale, l'eccitazione sessuale e la cura.
Gli obiettivi di ogni essere umano si fondano su questi sistemi motivazionali e si declinano in maniera personale, forgiati dagli interessi, dalle esperienze e dalle attitudini personali.
La Control Mastery Theory sottolinea come le persone vengano in terapia per essere aiutate a raggiungere determinati obiettivi sani, normali e desiderabili che non sono riusciti a perseguire o a mantenere nel corso della loro vita e, a tale scopo, specie nelle fasi iniziali del trattamento, cerchino di far capire al clinico, non sempre esplicitamente, cosa vogliono raggiungere e come vogliono farlo. L'individuazione degli obiettivi del paziente è dunque un primo passo essenziale per portare avanti una terapia che possa rivelarsi efficace.

L'attaccamento

La Control Mastery Theory sottolinea come, ai fini dell'adattamento, per il bambino sia estremamente importante poter fare riferimento a figure adulte che si prendano cura di lui, che lo facciano sentire amato e bene accolto, che lo proteggano dai pericoli e lo guidino nella conoscenza del mondo e nell'apprendimento delle sue regole. Il bambino ha bisogno di sentire di poter fare affidamento su caregiver buoni, forti e amorevoli.
In linea con il pensiero di Bowlby (1969), la Control Mastery Theory concepisce l'attaccamento come una motivazione centrale nei primi anni di vita. Il bambino si impegna attivamente, fin dai primi giorni di vita, a cercare la vicinanza del caregiver, specialmente quando è affamato, spaventato o in preda a uno stato di malessere, per assicurarsi protezione, cura e conforto. Se la vicinanza e la disponibilità di una persona pronta ad aiutarci in caso di difficoltà costituiscono la migliore polizza assicurativa che possiamo avere in qualunque fase della nostra vita, per un bambino piccolo rappresentano una questione di sopravvivenza fondamentale: la prossimità di un adulto pronto a occuparsi di lui gli consente di sentirsi al sicuro.

Considerazioni di sicurezza

Qualsiasi condizione aumenti la nostra possibilità di sopravvivenza ci fa sentire al sicuro, qualsiasi condizione la diminuisca ci fa sentire in pericolo. La valutazione della realtà in termini di sicurezza e pericolo è fondamentale ai fini dell'adattamento e noi regoliamo sempre il nostro comportamento in virtù di tali considerazioni: aspettiamo che scatti il semaforo verde o che non sfreccino le auto prima di attraversare la strada e aspettiamo un segnale d'intesa prima di farci avanti con qualcuno che ci piace. Di più, siamo in grado di valutare la sicurezza dell'ambiente che ci circonda, e di regolare di conseguenza il nostro comportamento e l'accesso di contenuti mentali alla consapevolezza in maniera completamente inconscia. Sono ormai molte le evidenze empiriche che dimostrano come gli essere umani siano in grado di effettuare valutazioni, anche complesse, e di regolare il loro comportamento di conseguenza, senza esserne consapevoli (vedi ad es. Gabbard, 2011).
Le origini della Control Mastery Theory possono rintracciarsi in un brevissimo articolo di Joseph Weiss pubblicato nel 1952: “Il pianto al lieto fine”. Weiss si interroga sul particolare fenomeno per cui lo spettatore immerso nella visione di un film d'amore non piange durante lo scorrere della trama che vede i protagonisti litigare e separarsi per un periodo di tempo, ma si lascia andare alle lacrime solo dopo aver appurato la loro riconciliazione e il loro ricongiungimento: appunto, piange solo al lieto fine. Perché? Perché piangere quando tutto va bene e i protagonisti sono felici? Perché non prima? Weiss suggerisce che le persone piangano al lieto fine, perché, identificandosi con i protagonisti del film, solo in quel momento si sentono sufficientemente al sicuro per permettersi di esperire quei sentimenti spiacevoli che durante il dramma dell'intreccio avevano vissuto come troppo pericolosi per poterli sperimentare. La constatazione del “lieto fine” segnala che il pericolo è passato, che le difese possono essere abbassate e le emozioni prima represse vissute e padroneggiate.
Gazzillo (2016) riporta alcuni esempi tratti dalla vita quotidiana in cui è possibile scorgere il medesimo fenomeno. Sottrarsi a un incidente automobilistico mediante un rapido movimento di sterzo che permette di evitare un impatto frontale, porta il conducente dell'auto a sentire il bisogno di fermarsi dopo aver proseguito per qualche centinaio di metri. E' solo in quel momento che avverte il terrore e i sintomi fisici a esso interrelati e si sofferma a parlare dell'accaduto con gli altri viaggiatori: dopo aver constatato di essersi messo in salvo insieme alle persone a lui care, si sente sufficientemente al sicuro per permettersi di vivere il terrore che nella fase critica sarebbe stato troppo pericoloso sperimentare (lo avrebbe ostacolato nel mantenere la lucidità necessaria per compiere la manovra di emergenza) e di potersi confrontare ed elaborare quello che era accaduto e ciò che poteva accadere. Tutto ciò è avvenuto al di fuori della sua consapevolezza: un meccanismo inconsapevole di valutazione del pericolo e di regolazione del comportamento ha fatto sì che uno specifico stato affettivo venisse prima inibito e poi vissuto. Per quanto la realtà oggettiva ricopra un ruolo essenziale in questo processo (come evidenziato dall'esempio sopra riportato), in molte altre situazioni acquisiscono un ruolo egualmente o addirittura più rilevante le nostre concezioni sulla realtà: ciò che crediamo essere reale e il modo in cui noi crediamo che il mondo e il nostro rapporto con esso debba essere.
Un uomo di cinquant'anni pianse per la prima volta, dopo parecchi anni, in seguito alla morte della sorella. Aveva perso il padre ancora adolescente. Era il figlio più grande di una numerosa fratria. La madre era fragile e poco in grado di fronteggiare le incombenze della vita e di occuparsi dei figli: aveva sempre vissuto all'ombra del marito. Alla morte del padre, Giorgio sentì la responsabilità della madre e dei fratelli, si sentì in dovere di occuparsi di loro, di essere “forte”: non versò una lacrima durante i funerali, preoccupato di lenire la disperazione dei suoi familiari. Negli anni seguenti, pur riuscendo ad affermarsi professionalmente e a formarsi una famiglia sua, continuò a essere un punto di riferimento stabile per la sua famiglia di origine: si prodigava costantemente per loro, sacrificando il suo riposo e i suoi bisogni. Se l'indipendenza raggiunta dai fratelli l'aveva in parte sollevato dal carico delle responsabilità, la malattia psichiatrica in cui era incorsa la sorella e il male che in seguito la portò alla morte costituirono per lui una preoccupazione gravosa, una causa per la quale doveva continuare a sacrificarsi. Quando la sorella morì, Giorgio si sorprese a scoppiare in un pianto disperato: pensò al dolore che la morte del padre gli aveva provocato, al senso di solitudine da cui era presto fuggito, al timore, che originariamente non si era permesso di provare, di non riuscire a occuparsi della sua famiglia e di se stesso senza un padre alle spalle. La morte della sorella, che aveva seguito di qualche anno quella della madre, lo aveva sollevato da quelle che credeva fossero le sue responsabilità: non era più tenuto a essere forte, non c'era più nessuna persona fragile di cui doveva occuparsi, poteva finalmente sentirsi sufficientemente al sicuro per esprimere la propria tristezza, presente e passata, e il proprio antico dolore, tornando a occuparsi di sé.
La Control Mastery Theory sottolinea che quando le persone si sentono al sicuro, riescono a elaborare i propri traumi, a esprimere i propri affetti, a superare i propri problemi, a raggiungere uno stato di benessere e a perseguire i propri obiettivi. Come le ossa guariscono dopo una frattura se il chirurgo ortopedico è in grado di predisporre le condizioni ottimali affinché ciò possa avvenire, così la mente può guarire dagli esiti di esperienze avverse se trova le condizioni ottimali che glielo consentano (Bowlby, 1988). Pertanto, lo scopo principale e sovraordinato di ogni psicoterapeuta Control Mastery Theory è quello di fare sentire al sicuro i propri pazienti; e, come ogni frattura ha bisogno di un intervento specifico, ogni “mente”, ogni “persona” ha bisogno di una psicoterapia “caso-specifica”.

Credenze, credenze patogene e sensi di colpa interpersonali

Come detto, l'essere umano è fortemente motivato a formarsi una conoscenza affidabile del mondo fisico e interpersonale, fin dai primi giorni di vita. Gli studi nell'ambito dell'Infant Research ci hanno ormai fornito una mole consistente di prove a sostegno delle precoci capacità del bambino di cogliere contingenze tra gli eventi, e tra gli eventi e il proprio comportamento, di memorizzare e di organizzare le informazioni che riceve dal mondo esterno, creandosi delle aspettative e reagendo in modo congruo a esse (Beebe, Lachmann, 2002). Precocemente il bambino si forma delle previsioni relative al comportamento delle principali figure che si occupano di lui nelle diverse situazioni e organizza le sue risposte emotive e comportamentali di conseguenza. Gradualmente doterà il mondo di significato, ne costruirà le leggi di funzionamento e imparerà a interagire con esso. In questo processo, i genitori, autorità assoluta per il bambino, hanno un ruolo fondamentale. Con il loro esempio, i loro insegnamenti e i modi con cui si pongono in relazione con lui, trasmettono al bambino tutta una gamma di conoscenze relative al mondo e a se stesso: “Chi sono io? Come devo essere? Come è il mondo? Come deve essere? Come funzionano le cose e i rapporti, e come devono funzionare?”
“Queste conoscenze sono state chiamate in molti modi diversi, rappresentazioni di sé e degli oggetti, imago, schemi, costrutti, rappresentazioni di interazione generalizzate, modelli operativi interni, aspettative ecc. Senza trascurare le loro differenze, tutti questi concetti rimandano grosso modo allo stesso ambito di senso, l’insieme delle rappresentazioni su noi stessi, gli altri, i rapporti tra noi e gli altri e il mondo, che fungono da guida per il nostro pensiero e il nostro comportamento. Weiss e Sampson hanno scelto il termine di credenze per descriverli, sussumendo sotto di esso le rappresentazioni esplicite e quelle implicite, quelle verbali, quelle per immagini e quelle procedurali. E sottolineano come la loro costruzione sia funzione della motivazione adattiva” (Gazzillo, 2016, pp. 11-12).
Le “credenze” non sono pensieri astratti e privi di affetti, ma “la rappresentazione del mondo reale e delle regole morali che lo governano e vengono costruite sulla base delle proprie esperienze e nel tentativo di adattarsi alla realtà” (Gazzillo, 2016, pag. 18). Gli affetti costituiscono la modalità preriflessiva e immediata, analogico-qualitativa, con cui elaboriamo le informazioni provenienti dalla realtà e, pertanto, contengono in nuce delle credenze. L'insieme delle credenze che ciascuno di noi sviluppa nel corso della vita costituisce la “mappa” con cui diamo significato al mondo e ci muoviamo in esso: è alla base della nostra personalità, della nostra “psicologia”.

Le Credenze Patogene

La Control Mastery Theory sottolinea come la psicopatologia derivi da credenze “negative”, dal carattere perentorio e scarsamente adattive, che si sviluppano in seguito a esperienze traumatiche reali, soprattutto durante l'infanzia e l'adolescenza, principalmente vissute con genitori e fratelli. Acquisiscono un carattere di traumaticità non solo quelle esperienze singole e inattese che fanno sentire l'individuo, o una persona a lui cara, gravemente in pericolo (traumi da shock), ma anche, e soprattutto, un'ampia gamma di situazioni ripetitive (traumi da stress), generalmente corrispondenti al protrarsi di rapporti disfunzionali: in entrambi i tipi di esperienze, la persona si sente sopraffatta da sentimenti negativi e/o vive il perseguimento di un obiettivo sano e normale come causa di una situazione di pericolo, sia interno (un sentimento spiacevole) sia esterno (qualcosa di negativo che accade al soggetto o a una persona per lui rilevante). Le credenze negative che originano da questo tipo di esperienze vengono definite “patogene” proprio perché legano bisogni, desideri, obiettivi sani e normali (dai più astratti ai più concreti) a un pericolo – che riguarda la persona o un suo caro – interferiscono con il benessere dell'individuo, ne ostacolano la realizzazione personale e relazionale, e sono fonte di psicopatologia. Possono essere espresse nella forma “Se... allora...”: “Se chiedo sostegno, graverò sugli altri e verrò rifiutato”, “Se sono autonomo, le persone a me care ne soffriranno”, “Se mi occupo di me stesso, invece di mettermi da parte e occuparmi delle persone a cui tengo, le ferirò...”, “Se esprimo me stesso, verrò criticato: sono inadeguato”, ect.
Un individuo può avere una qualche consapevolezza delle sue “credenze patogene” (anche se le reputa “dati di fatto” piuttosto che “visioni distorte della realtà”), ma in genere esse sono inconsce, o perché procedurali o perché rimosse in virtù della loro “pericolosità”.
Le “credenze patogene” possono essere tante quanto possono essere diverse le esperienze da cui esse sono state dedotte e quanti possono essere i modi in cui l'individuo ha vissuto una data esperienza traumatica. In maniera analoga a quanto la Main (1985) evidenziava relativamente ai Modelli Operativi Interni, esse non si limitano a essere una “interiorizzazione passiva” delle esperienze reali, ma una loro “ricostruzione attiva”, con finalità difensive (adattamento a situazioni traumatiche), influenzata dalle distorsioni cognitive tipiche dello psichismo infantile (si ricordi che la maggior parte delle credenze patogene si sviluppano in conseguenza di esperienze vissute durante l'infanzia e l'adolescenza) e, più in generale, dai limiti caratteristici della modalità analogico-qualitativa, caratteristica degli affetti, di elaborazione delle informazioni (le esperienze traumatiche hanno un impatto significativo sulla sfera emotiva).
Le credenze patogene, pertanto, si strutturano a partire dal pensiero illogico, pre-mentalistico e magico – caratterizzato da processi di attribuzione causale scorretta e ipergeneralizzazione – proprio del funzionamento psichico infantile. L'essere umano ha la tendenza, fondamentalmente adattiva, a generalizzare le conoscenze derivate dall'esperienza personale, e durante l'infanzia questa tendenza è acuita dal fatto che la povertà di esperienze pregresse non consente di relativizzare e contestualizzare un dato evento, specialmente se emotivamente gravoso. Inoltre, la difficoltà che i bambini hanno ad assumere prospettive diverse dalla propria, il loro sostanziale “egocentrismo”, li porta a controbilanciare il loro scarso potere con un'onnipotenza immaginaria. Ancora, le motivazioni prosociali e altruistiche (che l'evoluzione ha selezionato per il loro valore altamente adattivo) sono attive fin dalla più tenera età e portano il bambino a essere sensibile alla sofferenza delle persone a lui vicine e a sentirsi irrazionalmente responsabile delle loro sofferenze.
Infine, c'è un aspetto di primaria importanza che ci permette di gettare luce, oltre che sul carattere irrazionale tipico delle credenze patogene, sulla difficoltà che le persone hanno ad affrancarsene: ogni bambino dipende interamente dai suoi genitori, che sono per lui delle autorità assolute; ha la necessità di vederli come forti, giusti e buoni e di sentirsi al sicuro in rapporto con loro, e fa di tutto per riuscirci. Ogni bambino impara a conoscere la realtà così come i genitori gliela dipingono e cerca di capire cosa, implicitamente o esplicitamente, mamma e papà si aspettano da lui. Gli esempi dei genitori e i loro insegnamenti indicano al bambino non solo com'è la realtà, ma anche come “deve essere”, l'imperativo morale a cui deve assoggettarsi: il loro comportamento è quello giusto, il modo in cui lo trattano è il modo in cui egli merita di essere trattato. Necessitando di stare bene con loro, in caso di conflitto o disaccordo il bambino finisce per pensare di essere dalla parte del torto e se crede di aver causato loro sofferenze o dispiaceri, si sente profondamente in colpa e cerca di farli stare meglio.
Ogni credenza, non solo quelle patogene, tende a rimanere stabile nel tempo: è soggetta a processi di generalizzazione, a bias cognitivi di conferma, e necessita, per essere modificata, di ripetute e forti prove che la disconfermino. La plasticità cerebrale, ad ogni modo, assicura una certa dose di flessibilità: ci dà la possibilità, per tutta la vita, di farci tangere dall'esperienza e di modificare il nostro sistema di credenze. Tuttavia, una “credenza patogena” è molto più difficile da modificare. L'individuo, infatti, teme di allontanarsi dai “diktat” che le sue “credenze patogene” gli impongono, a causa dei pericoli che esse paventano, e che egli ritiene reali. Inoltre, esse guidano e plasmano i comportamenti individuali: pertanto, tali comportamenti tenderanno a suscitare negli altri risposte che saranno lette come una conferma delle credenze patogene su cui essi si basano.


I sensi di colpa interpersonali

Un ulteriore ostacolo, infine, è costituito dai potenti sensi di colpa inconsci che derivano da, e sostengono, le credenze patogene delle persone. Infatti, ogni “credenza patogena segnala l’esistenza di un conflitto tra il desiderio, innato e sostenuto da relazioni sufficientemente buone, di perseguire obiettivi sani e realistici, e il desiderio di conservare una relazione sicura con caregiver traumatici cristallizzato nella fede che si presta alle proprie credenze patogene.” (Gazzillo, 2016, pag. 24). Weiss (1993) sottolinea come “i bambini possono sentirsi in colpa per qualsiasi sentimento, atteggiamento o comportamento, anche il più sano, se hanno l’impressione o gli viene detto che esso suscita dolore o disapprovazione nei genitori o mette a repentaglio il rapporto con loro.” Ogni credenza patogena ha costituito il tentativo di mantenere una relazione sicura con i propri genitori (motivazione sovraordinata dell'individuo durante l'infanzia), a spese del proprio benessere e dei propri bisogni. Abbandonarle vuol dire anche allontanarsi da quella relazione ed elicita pressanti sensi di colpa che, a causa del loro carattere inconscio, esitano in manifestazioni disfunzionali e autosabotaggi.
La Control Mastery Theory identifica quattro principali sensi di colpa interpersonali: da odio di sé, da separazione/slealtà, da responsabilità onnipotente e del sopravvissuto.
Essi originano dalle motivazioni prosociali e altruistiche tipiche dell'essere umano e sono normalmente presenti in ciascuno di noi. Tuttavia, in presenza di esperienze, traumatiche, che portano alla formazione di credenze patogene, questi sensi di colpa acquisiscono un'intensità maggiore e sfociano in esiti patologici.

L'Odio di Sé

Come detto, in caso di disaccordo con i genitori, o se questi lo trascurano, lo maltrattano o abusano di lui, il bambino, per salvaguardare l'immagine amorevole dei suoi genitori, tenderà a credere di avere torto, di meritare il trattamento ricevuto e finirà per sentirsi indegno, cattivo, ect., a comportarsi in maniera congrua a questa autoassunzione sacrificale e/o ad aspettarsi di essere maltrattato allo stesso modo e/o di essere considerato negativamente. Osserva Fairbairn (1943, pp. 93): “E’ meglio essere peccatore in un mondo guidato da Dio che vivere in un mondo governato dal diavolo. Un peccatore in un mondo governato da Dio può essere cattivo; ma c’è sempre un certo senso di sicurezza che deriva dal fatto che il mondo all’intorno è buono (“Dio è nei Cieli – Tutto va bene nel mondo!”); e in ogni caso c’è sempre una speranza di redenzione. In un mondo governato dal diavolo l’individuo può sfuggire alla malvagità d’essere un peccatore; ma egli è cattivo perché il mondo che lo circonda è cattivo. Inoltre non può avere alcun senso di sicurezza né speranza di redenzione. L’unica prospettiva è quella della morte e della distruzione.” Bambini maltrattati, di età prescolare, che erano stati sottratti per questo ai genitori e affidati a un orfanotrofio, furono intervistati in seno a una ricerca (Beres, 1958) e le risposte che gli intervistatori ottennero furono sconvolgenti: tutti credevano di essere stati abbandonati dai genitori per qualcosa di cattivo che avevano fatto e nessuno di loro voleva essere affidato a una madre diversa dalla propria.

Il senso di colpa da separazione/slealtà

Il senso di colpa da separazione si sviluppa a partire dalla credenza che separarsi (fisicamente o idealmente) dalle persone care significhi farle soffrire, arrecar loro un danno, tradirle (Modell 1965, 1971; Asch, 1976; Weiss et al., 1986).

Il senso di colpa da responsabilità onnipotente

Il senso di colpa da responsabilità onnipotente (Asch, 1976; Weiss et al., 1986) deriva dalla convinzione di avere il dovere e di essere in potere di prendersi cura delle persone care in difficoltà, di essere responsabile dei loro malesseri. Una persona che soffre di questo senso di colpa ha difficoltà a separarsi o a occuparsi di se stessa nella misura in cui sente che ciò la porterebbe a venire meno ai suoi “doveri”, cosa che la farebbe sentire “cattiva” o “colpevole”.  

Il senso di colpa del sopravvissuto

Il senso di colpa del sopravvissuto deriva “dalla consapevolezza di avere qualcosa più di qualcun altro. [..] E' invariabilmente accompagnato dal pensiero, che può rimanere inconscio, che quello che si è ottenuto, è stato ottenuto a spese di qualcun altro a cui è stato sottratto” (Modell, 1971, p. 339). Questo senso di colpa si basa sull'assunto per cui la felicità e il benessere siano disponibili in quantità limitata, per cui la fetta di “felicità” di cui ci si nutre, la si è sottratta ai propri cari.

Adattarsi alle credenze patogene

Ciascun individuo può utilizzare diverse strategie, non mutualmente escludentesi, per adattarsi alle proprie credenze patogene. Esse non sono altro che strategie di coping, seppur disfunzionali (ma non di per sé!), con cui l'individuo cerca di far fronte alla sofferenza causata dai propri schemi patogeni. La Control Mastery Theory classifica queste strategie di coping in tre macro-categorie:
a) la compiacenza (compliance) rispetto agli esempi e agli insegnamenti dei genitori: l'individuo si assoggetta completamente ai suoi schemi patogeni, comportandosi e/o vivendosi in maniera conforme ai loro dettami o evitando le situazioni temute;
b) la ribellione contro l’esempio e gli insegnamenti dei genitori, a cui si associano profonde angosce di perdita, sensi di colpa e autopunizione: l'individuo si oppone esplicitamente ai dettami delle proprie credenze patogene, ma lo fa in una maniera autosabotante (che spesso lo porta a trovare una conferma dei propri timori) o sviluppa sintomi psicopatologici;
c) l’identificazione con i genitori: l'individuo fa proprio il comportamento traumatizzante dei genitori per acquisire un senso di padronanza.
La sofferenza, i problemi e la psicopatologia degli individui sono, pertanto, espressione dei modi con cui essi si sono adattati alle proprie credenze patogene. La gravità delle loro problematiche è funzione di una serie di variabili: il numero, l'intensità e la perduranza delle esperienze traumatiche vissute, la presenza e la rilevanza di esperienze positive (con figure di riferimento amorevoli, ad esempio), le caratteristiche personali (fattori temperamentali, sensibilità, intelligenza, ect). Come l'aumento di temperatura corporea, quando abbiamo la febbre, ha la funzione di ridurre la proliferazione dei microrganismi patogeni da un lato, e di incrementare l'attività delle cellule con funzione immunitaria dall'altro, così la psicopatologia risulta essere il miglior adattamento a cui un individuo riesce a giungere in determinate circostanze e con le risorse che ha a disposizione (Sandler, Joffe, 1969), il modo con cui cerca disperatamente di mantenere una sensazione di sicurezza, seppur a spese del proprio benessere, e, al contempo, un segnale che lo porta a cercare una soluzione, che lo spinge a mettersi alla ricerca di una strada in cui non sia la forclusione della sua felicità a garantirgli la sicurezza. Infatti, gli individui sono fortemente motivati, sia consciamente sia inconsciamente, a raggiungere i propri obiettivi e a superare le credenze patogene di cui soffrono e che li ostacolano; e si adoperano a tale scopo. Vedremo come! Ma prima...

Cosa andiamo a cercare

La Control Mastery Theory sottolinea come le persone giungano in terapia allo scopo di essere aiutate a elaborare i propri traumi e a superare le credenze patogene (e i sensi di colpa associati) che ne sono derivate e che ostacolano il raggiungimento dei propri obiettivi sani e desiderabili. Si adoperano a tale scopo, sia consciamente sia inconsciamente, collaborando attivamente con il clinico e cercando di fornirgli, specialmente nelle prime sedute, tutte le informazioni che possano aiutarlo ad aiutarli.
Ma cosa “andiamo a cercare”, noi terapeuti, mentre ascoltiamo una persona che si è rivolta a noi? Ci interessiamo alle varie aree e ai vari aspetti della sua vita, prestiamo attenzione al racconto dei suoi problemi personali e relazionali, alle sue risorse, accogliamo le narrazioni relative al suo passato, ai suoi traumi, al suo presente, al suo futuro, ai suoi desideri, ai suoi vissuti, alle sue paure. Osserviamo come si rapporta con noi, come reagisce ai nostri interventi e ai nostri comportamenti, cerchiamo di capire cosa lo fa sentire a suo agio e cosa a disagio, osserviamo le emozioni che ci suscita. E, durante quest'immersione in cui cerchiamo di vedere il mondo dalla sua prospettiva, ci sforziamo di cogliere gli obiettivi che vuole raggiungere e le credenze patogene da cui è ostacolato. In altri termini, cerchiamo di individuare gli schemi problematici che ricorrono nella sua narrazione e nel rapporto con noi: i modi in cui il paziente si aspetta, consciamente o meno, che gli altri reagiscano ai suoi comportamenti e ai suoi desideri, le rappresentazioni di sé e i vissuti che discendono da queste aspettative, e le sue personali modalità di risposta (anche anticipatorie) alle reazioni temute o effettive dell'altro. Cerchiamo i “temi relazionali conflittuali centrali” (CCRT) del paziente, costituiti, ciascuno, dalla successione di “tre elementi centrali: il desiderio del paziente (W, wish), la risposta reale o presunta dell'altro con cui il paziente è in relazione (RO) e infine la risposta soggettiva o del Sé (RS)” (Luborsky, Luborsky, 2000, pp. 57-58).

Una storiella, tratta da “Istruzioni per rendersi infelici” (1983) di Watzlawick, permetterà di chiarirci meglio alcuni dei concetti che abbiamo trattato e altri che tratteremo in seguito.

Un uomo deve appendere un quadro: ha un chiodo, ma non il martello. Il vicino ne ha uno, così
decide di andare da lui e di farselo prestare. A questo punto gli sorge un dubbio: E se il mio vicino
non me lo vuole prestare? Già ieri mi ha salutato appena. Forse aveva fretta, ma forse la fretta era
soltanto un pretesto ed egli ce l'ha con me. E perché? Io non gli ho fatto nulla, è lui che si è messo in testa qualcosa. Se qualcuno mi chiedesse un utensile, io glielo darei subito. E perché lui no? Come si può rifiutare al prossimo un così semplice piacere? Gente così rovina l'esistenza agli altri.
E per giunta s'immagina che io abbia bisogno di lui solo perché possiede un martello. Adesso basta! E così si precipita di là, suona, il vicino apre, e, prima ancora che questo abbia il tempo di dirgli “buongiorno”, gli grida: "Si tenga pure il suo martello, villano!"

Chiaro che si tratta di un esempio estremo (l'uomo in questione è verosimilmente un paranoico grave); ma gli esempi estremi ci permettono di osservare e comprendere meglio i fenomeni che vogliamo studiare. Qual è la credenza patogena che possiamo dedurre abbia spinto l'uomo a pensare, a sentire e a comportarsi in questo modo? Qual è il suo desiderio? Necessita di qualcosa che non ha, ha bisogno di aiuto, di sostegno: questo è il suo desiderio, questo è il suo obiettivo. Qual è la risposta che si aspetta dall'altro? Cosa associa al suo desiderio? Rifiuto, ostilità. La credenza patogena che, dunque, possiamo verosimilmente inferire è la seguente: “Se chiedo aiuto, verrò rifiutato e trattato con ostilità”. Non conosciamo altri episodi in cui l'uomo si è comportato in modo analogo – se fosse stato nostro paziente, avremmo potuto ascoltarne altri e/o avremmo potuto chiedergli se gli fossero capitati altri episodi simili – e, dunque, non possiamo ad esempio essere certi che la sua credenza patogena si riferisca a qualsiasi situazione in cui l'uomo si senta bisognoso di aiuto, o riguardi solamente alcuni tipi di situazione (ad esempio, con figure maschili). Supponiamo, però, di aver ascoltato altri episodi analoghi e di poter stabilire con abbastanza certezza che una delle credenze patogene centrali del paziente è: “Se chiedo aiuto, verrò rifiutato e trattato con ostilità”. Da quali traumi si è originata questa credenza patogena? Per quello che ne sappiamo da questa vignetta, la risposta è “boh!”. Se l'uomo fosse stato un nostro paziente, avremmo potuto chiedergli cosa lo schema patogeno in questione gli facesse venire in mente; avremmo potuto rispondere a questa domanda dopo aver ascoltato i racconti del suo passato; avremmo potuto chiedergli del suo rapporto con i genitori o altre figure significative, se non ce ne avesse parlato liberamente. A ragione, comunque, possiamo ipotizzare che l'uomo abbia sviluppato questa credenza patogena a causa di ripetute situazioni in cui si è trovato a chiedere aiuto ed è stato rifiutato e trattato con ostilità.
Altre considerazioni. L'uomo ha letto la “fretta” del vicino con la lente fornitagli dalla sua credenza patogena: ecco il “bias cognitivo di conferma” a cui prima accennavamo. Quella “fretta” potrebbe veramente significare tante cose e, con molta probabilità, era stata determinata da motivazioni personali del vicino; ma per l'uomo, c'è una sola “realtà” (per quanto inizialmente egli stesso abbia colto “l'oggettività della fretta”). Ancora. Cosa rispondereste voi a un vicino che, dal nulla, bussa alla vostra porta e vi tratta inspiegabilmente in questo modo? La maggior parte delle persone avrebbe una reazione compresa tra l'incredulità, la paura, la derisione e la rabbia. Rimarrebbe immobile e basita, chiuderebbe spaventata la porta, riderebbe della stramberia del vicino, lo manderebbe al quel paese o lo aggredirebbe verbalmente (o fisicamente) nella misura in cui egli non dovesse desistere dalle sue ingiuste e aggressive recriminazioni. In tutti questi casi, l'uomo penserebbe: “Vedi? Avevo ragione! Ce l'ha con me! Non mi vuole aiutare!” Scambierebbe l'effetto con la causa: ecco come il comportamento suscitato negli altri giunge a divenire una prova della validità delle proprie credenze patogene.
Le credenze patogene non sono delle semplici ipotesi: rappresentano la realtà per la persona che ne soffre. L'altro rifiuta di darmi aiuto e mi tratta ingiustamente con ostilità e io, “giustamente”, mi arrabbio. Papà rifiuta di darmi aiuto e mi tratta ingiustamente con ostilità e io, giustamente (senza virgolette), mi arrabbio. Arrabbiarsi implica il riconoscimento delle mancanze altrui nei nostri confronti, la ribellione all'idea di meritare rifiuto e ostilità – in questo caso – , il sentirsi degni di qualcosa di meglio. L'aggressività è una strategia di coping adattiva: uno dei modi con cui possiamo reagire alle situazioni in cui ci sentiamo in pericolo. Pertanto, in questo caso, come nella maggior parte dei casi, il problema non sta nel “coping”, nel modo in cui ci adattiamo a una determinata credenza patogena, ma nella “credenza patogena”, nelle aspettative false e irrazionali che, oltre a condizionare il nostro comportamento e le nostra visione della realtà, ci fanno soffrire. Da clinici, è di questo che dobbiamo occuparci: il contributo del paziente ai cicli interpersonali disfunzionali può, eventualmente – sempre che il paziente non viva ciò come una critica – divenire oggetto d'attenzione solo dopo che – se dell'uomo di Watzlawick ci stessimo occupando – il paziente è giunto a sentire chiaramente che noi valorizziamo il suo diritto di chiedere aiuto, ci sente dalla sua parte, ha chiaro che noi NON crediamo meriti rifiuto e ostilità e può constatarlo osservando il nostro atteggiamento nei suoi confronti; se facciamo ciò, tuttavia, potrebbe anche non essere necessario: se ci si arriva a sentire in diritto di chiedere aiuto e ci si aspetta di venire accolti quando si chiede aiuto, un comportamento come quello tenuto dall'uomo della storiella non lo si terrebbe.
Ma stiamo anticipando un'altra questione, con la quale potremmo rispondere a una domanda che probabilmente molti di voi si sono fatti: “ma se quest'uomo si aspetta di ricevere rifiuto e ostilità chiedendo aiuto, perché lo fa?”



Test e processo terapeutico

Ognuno di noi valuta costantemente l'ambiente che lo circonda e organizza il suo comportamento in virtù dei suoi desideri e dell'esito delle sue valutazioni. Se, ad esempio, ho voglia di bere una birra fresca, apro il frigo e controllo che ne sia rimasta una. Se la trovo, la bevo; altrimenti scendo in strada e vado ad acquistarla al bar sotto casa. Come prima cosa, metto alla prova la credenza: “mi è rimasta una birra in frigo”. Se malauguratamente la mia credenza viene disconfermata dai fatti, ne metto alla prova un'altra: “c'è un bar sotto casa mia”; e, ancora, un'altra: “il bar sotto casa mia è aperto a quest'ora”. “E speriamo bene...”
Il modo principale con cui esploriamo il nostro ambiente, compreso quello interpersonale, è mettendo alla prova le nostre credenze. Il processo di “messa alla prova” può essere cosciente quanto inconscio e tiene conto non solo dei processi cognitivi, ma anche, e soprattutto, delle reazioni affettive. Quando conosciamo una persona, ad esempio, per valutare se possiamo trovarci bene con lei, cerchiamo di capire con chi abbiamo a che fare e che tipo di rapporto possiamo aspettarci, la mettiamo alla prova e dalle risposte che riceviamo traiamo le nostre conclusioni, et voilà: nel giro di poco tempo, decidiamo se quella persona può piacerci o meno, se ci sta simpatica o meno, e come possiamo rapportarci con lei. Solo parte di questo processo di valutazione è consapevole: spesso può capitarci che una persona ci stia simpatica o meno “a pelle”, senza sapere il perché.
Nei rapporti interpersonali, mettiamo soprattutto alla prova le nostre “credenze patogene”. Per quanto, per i motivi illustrati in precedenza, le persone trovino molto difficile affrancarsi dalle loro credenze patogene, per via della sofferenza che provocano sono al contempo estremamente motivate a metterle alla prova per cercare di attestarne la falsità. E ciò avviene talvolta consapevolmente, ma soprattutto inconsciamente, nella vita di ogni giorno, come in psicoterapia.
Per la Control Mastery Theory, “il processo terapeutico è il processo attraverso il quale il paziente, con l'aiuto del terapeuta, lavora per disconfermare le sue credenze patogene” (Weiss, 1993, p. 30). A tal fine, il paziente farà dei “test” al terapeuta: metterà inconsciamente alla prova con lui le sue credenze patogene, sperando di ricevere una risposta che gli mostri che il terapeuta non le condivide, le reputa false e che lo legittimi ad abbandonarle e a perseguire i suoi obiettivi sani e desiderabili. Come dimostrato da numerose ricerche empiriche (Weiss et al., 1986; Weiss, 1993), quando il terapeuta supera un test del paziente, quest'ultimo diventa più rilassato, meno angosciato, più sicuro di sé e più capace di insight; si avvicina ai suoi obiettivi e, successivamente, può testare con ancora più forza le sue credenze patogene. Al contrario, se il terapeuta fallisce un test, il paziente diventa più teso e angosciato, più insicuro e inibito, e meno capace di insight, si allontana dai suoi obiettivi e diventa meno audace nel mettere alla prova le sue credenze patogene con il clinico.
L'obiettivo sovraordinato del terapeuta è fare sentire al sicuro il paziente, e per farlo sentire al sicuro deve, mediante i suoi interventi e le sue risposte, superare i test che il paziente gli fa e disconfermare le sue credenze patogene. Una terapia di successo giunge alla sua conclusione quando il paziente, avendo ricevuto un numero che ritiene sufficiente di disconferme delle sue credenze patogene, si sente libero di abbandonarle, raggiunge i suoi obiettivi e smette di testare il terapeuta.
Ma in che modo un paziente può testarci? In infinito modi: mediante richieste, comportamenti, atteggiamenti, raccontandoci fatti della sua vita, presenti o passati, parlando di sé o di altri in un certo modo, ect. E in ogni occasione, osserverà con attenzione la nostra reazione, il modo in cui noi interveniamo, verificando se contrasta o meno la credenza patogena che sta mettendo alla prova in quel momento.
Riprendiamo per un attimo “l'omino di Watzlawick” e la domanda: “ma se quest'uomo si aspetta di ricevere rifiuto e ostilità chiedendo aiuto, perché lo fa?” Risposta: perché mette alla prova la credenza patogena di meritare rifiuto e ostilità se chiede aiuto. “Ma perché lo fa in maniera così controproducente?”
Ogni credenza patogena è il risultato di un tentativo di adattamento a situazioni traumatiche. Paventando un determinato pericolo, in origine ha permesso all'individuo di evitare o limitare le ritraumatizzazioni a cui era esposto nel suo ambiente di sviluppo traumatico. Avendo subito un processo di generalizzazione, tuttavia, essa è divenuta la “realtà dell'individuo”: un modo costante di leggere le situazioni in cui la persona desidera o ha bisogno di soddisfare quell'obiettivo che la credenza patogena considera “pericoloso”. Le persone, pertanto, sono estremamente spaventate all'idea di ignorare o sfidare le ingiunzioni prescritte dalle credenze patogene, che, ricordiamolo, sono ricoperte della stessa “aurea autoritaria” di cui l'individuo da bambino aveva ricoperto i suoi genitori. Le persone, tuttavia, sono al contempo molto motivate a superare le proprie credenze patogene, ad attestarne la falsità, in quanto fonti di inibizioni e di profonda sofferenza. Per farlo, però, hanno bisogno di sentirsi al sicuro. Ogni paziente valuta, consciamente e inconsciamente, il grado in cui, nella relazione con il clinico, può sentirsi al sicuro nel mettere alla prova le sue credenze patogene. E' estremamente attento rispetto alle reazioni del terapeuta, per cercare di capire se questi condivide i dettami delle sue credenze disfunzionali o li disapprova. Lo mette alla prova senza abbandonare completamente le sue credenze, per non sentirsi eccessivamente in pericolo. Inoltre, essendo sorte come tentativo di mantenere un rapporto positivo con i genitori, sfidare le proprie credenze patogene porta l'individuo a sentire di recidere quell'antico legame e ciò, come detto, gli elicita forti sensi di colpa inconsci che sfociano in manifestazioni disfunzionali e autosabotaggi, con cui inconsciamente cerca di espiare, punendosi, “la propria colpa”.
L'uomo descritto da Watzlawick era estremamente convinto che il vicino gli fosse ostile e che non gli volesse accordare il suo aiuto e, pertanto, si era recato da lui con la corazza che gli avrebbe consentito di difendersi nel caso in cui la sua credenza patogena avesse trovato un riscontro nella realtà. Non poteva abbandonare questa corazza e si sarebbe sentito in colpa nel farlo: se si fosse sentito meritevole di aiuto, di un trattamento solerte, avrebbe implicitamente dimostrato l'inadeguatezza del comportamento che i suoi genitori (ipotizziamo) avevano tenuto nei suoi confronti (senso di colpa da Odio di Sé). Inoltre, dato che le credenze patogene originano da esperienze disfunzionali ripetute e/o estremamente gravose, il valore di verità che il soggetto attribuisce loro, lo spinge a cercare prove contrarie ugualmente forti nel suo tentativo di disconfermarle: se penso di essere rifiutato e trattato con ostilità se chiedo aiuto, mi comporto in modo da aumentare la possibilità che ciò accada e se, come spero, vengo invece accolto e aiutato, posso sentirmi rassicurato circa la falsità della mia credenza, e posso pertanto sentirmi al sicuro nell'abbandonarla. Chiaro che quanto più sono stati gravi e persistenti le esperienze traumatiche vissute, tanto più “estreme” saranno le manifestazioni comportamentali che l'individuo metterà in atto al fine di disconfermare le credenze che da esse ha dedotto.
La Control Mastery Theory evidenzia tre macro-modalità con cui una persona può mettere alla prova le proprie credenze patogene, tre tipi di test:
a) i test di transfert per compiacenza, in cui il paziente si comporta in obbedienza ai dettami prescritti dalle proprie credenze patogene, sperando che il terapeuta gli faccia capire che non è necessario. Ad esempio, un paziente che vuole mettere alla prova in questo modo la credenza patogena “se chiedo aiuto, verrò rifiutato”, potrà minimizzare i suoi problemi, dire che può occuparsi di sé da solo, dire di poter fare a meno della terapia, ect., sperando inconsciamente che il terapeuta si opponga a queste sue modalità, valorizzi il suo diritto di essere aiutato e si occupi attivamente di lui.
b) i test di transfert per ribellione, in cui il paziente si comporta in maniera opposta a quanto prescritto dalle proprie credenze patogene, sperando che il terapeuta gli faccia capire che ne ha tutto il diritto, proteggendolo da eventuali autosabotaggi. In questi casi, in virtù dei propri sensi di colpa inconsci, il paziente può ribellarsi in maniera “eccessiva”, può sviluppare dei sintomi o comportarsi in modo tale da suscitare negli altri risposte che confermano la sua credenza patogena. La credenza patogena “se chiedo aiuto, verrò rifiutato” potrà essere così messa alla prova con il terapeuta mediante la richiesta di sedute aggiuntive o con frequenti telefonate tra una seduta e l'altra: la risposta del terapeuta dovrà essere valorizzante nei confronti del suo bisogno di chiedere aiuto e dovrà accogliere, nei limiti del possibile, le sue richieste.
c) i test di capovolgimento da passivo in attivo, in cui il paziente si identifica con il genitore traumatico, trattando gli altri nello stesso modo traumatizzante in cui è stato trattato. Con questo tipo di test egli spera inconsciamente di imparare dalla persona che “attacca” un modo diverso di fronteggiare la situazione traumatica subita in passato. Se in terapia un paziente ci fa test di questo tipo, dobbiamo cercare di mantenerci calmi e sereni e di non giustificarci (senza interpretare la sua identificazione immediatamente: il paziente con molta probabilità la percepirebbe come una giustificazione, un segno del fatto che con il suo comportamento ci ha feriti); se, invece, ci racconta situazioni in cui ha trattato così altre persone della sua vita, dobbiamo difendere queste ultime.
I pazienti possono mettere alla prova una stessa credenza patogena con ognuno dei tipi di test sopra-delineati e possono utilizzare comportamenti anche molto diversi tra loro; possono testare con diversi comportamenti, anche opposti, una stessa credenza patogena, possono testare con uno stesso comportamento credenze patogene diverse in momenti diversi della terapia, o addirittura della stessa seduta, e, specialmente nei casi più gravi, possono testare contemporaneamente più credenze patogene con uno stesso comportamento. Il terapeuta deve essere in grado di cogliere il tipo di test e riconoscere la credenza patogena che il paziente sta testando con lui in uno specifico momento. Per fare questo, è necessario che sia giunto a una esauriente comprensione del funzionamento del paziente, che abbia compiuto una formulazione, come vedremo insieme, quanto più accurata possibile del suo “piano inconscio”.
Con i test, i pazienti non fanno altro che mostrarci gli esiti disadattivi delle relazioni traumatiche che hanno vissuto e ci chiedono di fornirgli una “esperienza emozionale correttiva”, strettamente caso-specifica, che dobbiamo cercare di dargli.
Come? Come possiamo superare i test dei pazienti?
Riprendiamo la storiella di Watzlawick. L'uomo sta mettendo alla prova la sua credenza patogena di meritare ostilità e rifiuto se chiede aiuto. Bussa al vicino, ma anziché chiedergli una mano, “chiedergli il martello”, inveisce contro di lui accusandolo implicitamente di non volerlo aiutare. Se ciò fosse capitato in terapia? Se si fosse scagliato allo stesso modo contro il terapeuta accusandolo di non volergli accordare una seduta in più? Come il terapeuta avrebbe potuto rispondere per superare il test del paziente? Non c'è un solo modo: esistono diversi modi con cui è possibile superare i test dei pazienti e diversi modi con cui invece si rischia di fallirli. Nella scelta del “modo”, bisogna anche tenere in considerazione come il paziente potrebbe leggere la nostra reazione. Un richiamo alla calma, un ritiro spaventato, potrebbero divenire, per un paziente che sta testando la credenza patogena “se chiedo aiuto, verrò rifiutato e trattato con ostilità”, indicazione di rifiuto, al di là della reale intenzione del suo interlocutore. E questo varrebbe per qualsiasi intervento, anche “tecnicamente corretto” (un'interpretazione di un certo tipo, se per esempio ci muoviamo con un approccio psicodinamico; ma lo stesso discorso è applicabile a qualunque tipo di modello di psicoterapia), che il paziente arrivi a leggere come “rifiuto” o “ostilità”, in questo caso. E ogni paziente, “anche a parità di credenza patogena”, legge la realtà in maniera personale: pertanto, il nostro approccio deve sempre essere strettamente “caso-specifico”, sia in considerazione degli obiettivi e delle credenze patogene del paziente, sia in considerazione del suo modo di recepire i nostri interventi e il nostro atteggiamento. E ricordiamoci che per il paziente non esiste la “neutralità del terapeuta”: egli vive sempre le risposte del clinico come favorevoli, contrarie, o al più indifferenti, alle sue credenze patogene; ma necessita, per stare meglio, di avvertire il terapeuta sempre e comunque dalla sua parte (ciò non necessariamente implica che dobbiamo essere compiacenti rispetto a tutte le sue richieste “consce”, che non di rado possono essere riflesso delle sue credenze patogene).
Come potremmo rispondere dunque all'ipotetico uomo di Waztlawick? L'atteggiamento opportuno dev'essere opposto a quello tenuto dal genitore con cui ha vissuto l'esperienza traumatica da cui ha inferito la credenza patogena che sta testando con noi: accogliente e cordiale. Ecco alcuni esempi possibili di risposta: “Mi dica... se desidera una seduta in più se ne può senz'altro parlare... se posso, mi fa piacere venirLe incontro...”; “In questo momento sente un forte bisogno di essere sostenuto... ma teme che anch'io, come ha fatto suo padre in molte occasioni, possa rifiutarLa e trattarLa con ostilità... ma io penso che Lei abbia tutto il diritto di chiedere aiuto e di riceverlo...”; “Lei è arrabbiato con me perché crede che non voglia accordarLe una seduta in più... crede che non mi curi del suo bisogno di essere sostenuto... e se fosse così avrebbe ragione a essere arrabbiato...”; ect.
Attenzione! Con un comportamento pressoché identico, lo stesso paziente potrebbe mettere alla prova la stessa credenza patogena con un test da passivo in attivo: ad esempio, se gli chiedessimo di spostare una seduta per delle nostre esigenze, potrebbe accusarci per questo, trattarci con ostilità e maltrattarci. In questo caso, il tipo di risposta da dare sarebbe completamente diverso. Dovremmo rimanere sereni e porre dei limiti se necessario: in questo modo il paziente potrà apprendere da noi un modello di risposta più funzionale di quello da lui adottato in passato, procedendo così verso l'elaborazione e il padroneggiamento del suo trauma.

A proposito d'interpretazione

Per superare i test dei pazienti, non è necessario nessun tipo di intervento particolare: è importante il messaggio relazionale che si veicola, l'esperienza correttiva che si fornisce al paziente, al di là dei modi e delle tecniche. Altresì, il paziente diverrà automaticamente più capace di insight dopo un test superato. Non è l'interpretazione del terapeuta a favorire l'insight del paziente, ma l'aumento del grado di sicurezza a cui porta il superamento di un test: ci sono dati di ricerca a supporto di questo assunto; di una ricerca svolta sui trascritti di un'analisi classica, tra l'altro (Weiss, 1993).
Ad ogni modo, aiutare il paziente a comprendere da quali esperienze siano derivate le sue credenze patogene, sottolineare il valore adattivo che esse avevano avuto e lo scopo (mantenere una relazione amorevole con i propri caregiver traumatici) che si erano prefisso, ed evidenziarne la ricorsività in situazioni diverse, lo aiuta a generalizzare i progressi compiuti in terapia e ad acquisire un maggior senso di padronanza. Non sempre tuttavia: con pazienti che vivono le interpretazioni come critiche, è bene evitarle (almeno fino a quando essi continuano a viverle così).

Compiti e incoraggiamenti

I compiti a casa e gli “incoraggiamenti a fare” possono essere ugualmente molto utili se, in linea con gli obiettivi del paziente, rappresentano una disconferma delle sue credenze patogene.


Il piano del paziente

Riassumendo, ogni paziente giunge in terapia a causa di problemi derivati da credenze patogene che lo ostacolano nel perseguimento degli obiettivi sani (e non sempre consapevoli) che vuole raggiungere. Queste credenze sono state inferite da esperienze traumatiche reali (da shock e/o da stress) occorse principalmente nel corso dell'infanzia e dell'adolescenza. Per quanto sia estremamente spaventato all'idea, il paziente desidera ardentemente superare i suoi problemi e raggiungere i suoi obiettivi: cerca di farlo mettendo alla prova le sue credenze patogene, mediante test che rivolge al clinico e con il quale spera inconsciamente di ricevere una risposta che disconfermi i suoi timori.
La Control Mastery Theory sottolinea come il paziente possegga un “piano inconscio” di massima con cui portare avanti questo lavoro. Testerà le sue credenze patogene in modi e con un ordine che dipenderà da quanto si sente sicuro, durante le varie fasi della terapia, nella relazione con il clinico: testerà prima le credenze patogene che lo spaventano di meno e con i modi (tipi di test) che lui considera meno pericolosi e gradualmente, man mano che il terapeuta supera le sue credenze patogene e gli permette così di acquisire maggior sicurezza nel rapporto con lui, metterà alla prova quelle che sente più minacciose. In linea di massima. Ogni caso è comunque a sé.
Per aiutare nel modo migliore possibile il paziente di cui ci stiamo occupando, dobbiamo, pertanto, cercare di comprendere durante le prime sedute il suo “piano” e costruire una formulazione che contenga gli obiettivi che il paziente vuole raggiungere con la terapia, le credenze patogene e i sensi di colpa che lo ostacolano in questo, i traumi da cui tali credenze si sono originate, i possibili test che il paziente farà al terapeuta e gli insight che sarà utile lui raggiunga.
In questo processo il paziente sarà il nostro migliore alleato: durante le prime sedute cercherà di farci capire, consciamente e inconsciamente, come aiutarlo al meglio e, per tutto il corso della terapia, quando sbaglieremo, cercherà di riportarci sulla strada giusta. Non ci resta che ascoltarlo. Non ci resta che fidarci dei nostri pazienti!


Bibliografia


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